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È una giornata fredda

Writer's picture: Salvatore Enrico AnselmiSalvatore Enrico Anselmi

Updated: Jun 24, 2018


Salvatore Enrico Anselmi, E' una giornata fredda
Salvatore Enrico Anselmi, E' una giornata fredda

M. si è appena alzato. Riemerso dall’assorbimento del materasso, si tira su, calibra il passo e s’infila sotto la doccia. Si flette e mette in circolo il sangue. Aziona un braccio, si stira, friziona, igienizza e pensa all’ultima volta in cui la forma concorde con una sensazione di quasi felicità aveva stazionato sulla sua vita.

Non canta, non ha mai cantato sotto il getto dell’acqua calda. Se canta, beve. E se beve si soffoca. Ha letto da poco un articolo sugli incidenti domestici più frequenti. La morte da soffocamento per ingestione involontaria dell’acqua fuoriuscita dal soffione è al diciottesimo posto, dopo l’ingestione di acido muriatico e prima dell’inciampo su un oggetto incustodito. M. non ha alcuna intenzione di sperimentare come ci si senta al diciottesimo posto in classifica.

Si asciuga alla luce frizionando la spugna dell’accappatoio. Dalla finestra una ragnatela di vie alberate, strette dal fango sui bordi. È piovuto per tutta la settimana, senza scappatoie, senza squarci al grigio antracite dei palazzi e del cielo. Di fronte una scuola col giardino intorno. Pietre aguzze e lisce emergono dall’erba che non ha ancora ravvisato una topografia coerente, un colore dignitoso e una ragione per trovarsi lì, calpestata ogni mattina dalle scarpe da ginnastica dei pre-adolescenti che frequentano la scuola.

M. si gira a destra in direzione della prospettiva decentrata del balcone vicino e sorride. Maria deve aver fatto il bucato grosso, appeso i pantaloni del pigiama e delle tute, i suoi e quelli del marito, a penzoloni. Zuppi, carichi d’acqua, si sono trasformati in trappole per corpi abnormi. Spugne imbevute, che vomitano acqua, pendono allineate ad altezze diverse, esercitando un peso diverso, un peso vuoto, e per il momento inefficiente.

M. avverte la fame, come una cosa certa e intorno alla quale ipotecare la giornata, ma non ha niente nel frigo.

Succhi gastrici e mucose in collisione. Decide di uscire per comprare qualcosa da mettere sotto i denti.

Il cielo balugina e promette pioggia. Clangore di armi, risentimenti di stomaco e cozzo di rostri. M. si sente preso in mezzo al clangore, al cozzo e al risentimento. Non solo di stomaco. Si divincola dalla morsa piegando la testa da una parte e stringendo gli occhi. M. faccia di gomma produce una smorfia dovuta al disagio acustico del tuono.

Le nuvole si scontrano, volatili e inconsistenti all’apparenza, in realtà sovraccariche dell’elettricità sufficiente per alimentare tutto l’isolato.

M., faccia di gomma, produce una seconda smorfia dovuta al disagio acustico del tuono.

Stordita dal gelo, la città dorme tra le pieghe del giorno di festa. Dopo il giro di chiave e con lo scrollo rauco del motore la macchina di M. la sorprende mentre spalanca la bocca, si gratta, rabuffa i capelli e si rigira nel letto per l’ultimo sonno. È desolata e vuota. Il silenzio produce un sibilo interno, un acuto percettibile, continuo. Perdura come l’assenza che non t’abbandona come il dolore quando vorresti essere felice e per una ragione aliena non lo sei. Perdura come uno straordinario peso da sostenere quando l’occipite è dolorante, le braccia di flanella, le gambe piegate. È come un allarme di notte quando le ombre sono ancora troppo grasse e onnivore per risputare qualcosa che viva e si muova.

“Te ne farai una ragione” - pensò.

Poche auto precedono M., una lo segue per un bel tratto di strada, il viale di platani incassato tra le palazzine borghesi del quartiere. Lampeggia, con l’indicatore sbieco e a mezz’asta, devia verso un’altra direzione. M. non conosce chi è alla guida, un uomo sulla quarantina, né chi gli sta accanto, una donna un po’ più giovane. Ma quel distacco, dopo un contatto minimo e uno scambio di sguardi, provoca in lui una leggera fitta, tenue e sopportabile. Quando girano la donna lo segue con lo sguardo, ancora per una manciata di secondi.

“Combaciamo con la nostra vita come una piega adesiva appena incollata – pensò – che svia dal suo dovere alla prima increspatura, inconsulta, meccanica, accidentale.”

M. accende l’autoradio. Danno una vecchia commedia. Un uomo: “A quanti rimaniamo prossimi, contigui, affini? Per indole e attitudine? A quanti non apparterremo e non potremo aprire l’argine per condividere lo stesso pane e le ore in comune?” – M. alza il volume – “Viviamo un tempo breve e lunghissimo. Non lasciamo una traccia, pochi di noi lo faranno, e tuttavia ci avvinghiamo alle piccole incrostazioni, alle distorsioni certe dell’orizzonte ravvicinato. Come se ne valesse la pena. Ce ne siamo fatti una ragione e forse non tenteremo più la sorte. Senza lungimiranza investiamo i nostri averi morali e soltanto dopo averli individuati a fatica.

Ce ne faremo una ragione”.

Cambio di stazione. “Baby, baby, I love you. Baby, baby!”. L’autoradio marca un brano hip-hop e lo manda in circolo nell’abitacolo, in mezzo all’aria viziata di sigaretta. M. cambia ancora, in discesa libera, aumentando i megahertz. Il programma di classica gracchia, come sempre. È un acciottolato sotto la percussione degli scarponi, è una strada piagata dalla grandine. Insomma non si sente quasi niente.

Ritorno alla commedia: “…Si stupì di quanto fosse prodiga di saggezza quella giornata. Una buona giornata, data da cerchiare in rosso sull’agenda. Abbiamo ereditato questa giornata fredda, un caffè macchiato, i guanti per riscaldare le mani, un posteggio sotto casa. Forse è sufficiente, almeno per ora”.

Ancora il programma gracchiante di classica. Mozart. M. arriva al parcheggio sotterraneo del centro commerciale. Le gomme stridono in curva.

“Accendere i fari”.

Mozart scompare assorbito dal soffitto in cemento. M. accelera, decelera, si ferma senza incollarsi al pilone di fronte, schivando a destra la fila metallica dei carrelli. Sono infilzati l’uno all’altro, con uno spiedo a catena e uno spinotto che s’incastra dentro una fessura appena più larga. Una striscia di galeotti ai lavori forzati.

Gingle di benvenuto -“Non ti lascerò. Non mi lascerai!” - “Non mi lascerai. Non ti lascerò”. Ma poi la canzone finisce che si lasciano.

Il centro commerciale ripugna: il non luogo, la plastificazione dei cibi, l’edonistico profumo da poco per ambienti senz’aria, le isole delle offerte imperdibili che cambieranno la tua vita. Almeno per la prossima settimana, o forse solo fino a sabato, fino a quando durerà la confezione famiglia. “I leave you now! Now, now, now”.

Sulla rampa mobile alcuni avventori. Un bambino tenta di strappare il braccio alla madre attaccandosi con tutta la forza esercitabile a sei anni.

Una coppia di mezz’età precede M., M. li segue a distanza, inerte sulla stringa mobile che, senza tentennare, lo aspira in alto e lo porta a destinazione. L’approdo al piano quasi lo acceca. M. è accolto dalla luce che gronda dalla cupola a vetri post-funzionalista, industriale e cacata dai piccioni.

Acciaio satinato e cristallo sovrastano la gente, raccolgono il vociare crescente dovuto all’ora più tarda. Respingono l’eco che scuote più forte e a ondate diverse.

Schermi con spot di auto che sfrecciano nel deserto. In mezzo a quel casino di polvere e sassi alzati in aria, uno scorpione barcolla mezzo ubriaco e vibra la coda, un teschio di bue cieco da tutti e due gli occhi, la super sportiva arriva di sbieco e in sgommata, brillante, lucida come nella galleria del vento.

Pubblicità per case di riposo, con la foto di nonnetti che ridono a trantadue denti. Infilate di lampadari improbabili. Un’esplosione di cristallo, lampadine, braccia d’acciaio, piume. Uno sembra la parte alta di un lampione a cinque braccia, di vetro nero e rosso satinato.

Una ragazza, biascica-gomme lo guarda da sotto: “Gustoso! Amo’, guarda che bello, in sala ci starebbe proprio bene”. Un muro con scarpe di gomma su file orizzontali da otto piani, separa M. dall’ingresso a una libreria dal catalogo esiguo. È stato ridotto ancora. Solo best seller, amori perduti, sfumature sessuali, Fabio Volo.

L’isola in mezzo al centro commerciale sembra una piazza ma non lo è davvero, ognuno segue la sua traiettoria da consumatore solerte e in ansia, con un fascio di buoni sconto da impiegare bene. Bocche aperte in colloquio telefonico, jeans stretti, globi oculari dilatati striano il campo dell’attenzione, gesti impoveriti di pazienza, scarpe borchiate, trucco pesante. Fantasmi dall’aria vigile, funzioni vitali nella norma.

“Oggi non mi sento tanto bene”.

“No, grazie non voglio provare la poltrona massaggiante.”

“Signora, accappatoi di spugna a 9.90. Il set completo a 12.50.”

Qualcuno incontra un amico. Si parla di calcio e di shopping, della cena da organizzare, delle tette di Sonia, di quello che fa Sonia e di come non farlo sapere alla moglie. “Simone non menare il bambino! Gli fai male! Quante volte t’ho detto che non lo devi fare. Devi rispettare le regole, a papà!” Il padre di Simone sgrida Simone e pensa a Sonia.

“L’amore sincero, l’amore per davvero. Non c’era l’amore, sono serio. L’amore sincero, l’amore per davvero. Non c’era l’amore, sono serio.”

“Avvisiamo la gentile clientela che al reparto gastronomia è in vendita frittura di pesce calda e croccante”.

Dal padiglione pendono festoni primaverili, fino a qualche tempo prima maschere impiccate e ancora prima un villaggio polare con cristalli di neve a cinque braccia. Con un braccio in meno rispetto a quelli d’ordinanza, in tempi di crisi. Così costano di meno e per ogni cinque cristalli pentagonali ce ne esce uno a costo zero. Che poi la crisi non c’è più. Sono tornati tutti ricchi, come prima erano diventati poveri. Da un giorno all’altro. Colpa del bosone, del buco dell’ozono, della new-economy, sconosciuta alla maggior parte dei poveri cristi.

M. avanza sulla seconda stringa mobile. Sono mediocri per altezza e corporatura, i due predecessori di M., affiancati e docili sul nastro in salita. La moglie avanza sorridendo al marito, con un giaccone lucido e plastificato, almeno una misura più grande di lei. Ci annaspa dentro con le braccia troppo corte. Un acquisto in saldo. Lui ricambia lo sguardo, lo distoglie per poco, la fissa ancora e le sorride, stupefatto e grato per la distrazione della sorte che a cinquant’anni gli ha elargito qualcosa. L’amore, appagato di poco, che ancora li stringe, colpisce M..

Conquistano una postazione seduta. Lì forse mangeranno a pranzo, presso tavoli scomodi e quadrati, in mezzo al furore dei treni e degli insetti giganti che sollazzano, imbizzarriti, piccoli d’uomo assuefatti alla velocità.

M. sistema il giustacuore, respira e procede. Lo smart-phone dardeggia messaggi, decine nel gruppo. Alcuni sono diretti a lui, altri no. Ma per le forme anomale e correnti di democrazia telefonica è stato deciso che comunque debba essere parte di una condivisione non voluta.

M. raggiunge gli alimentari. Corridoi paralleli e perpendicolari segnalano direzioni obbligate. Tutto è in vendita, tutto si può comprare. Occhi vuoti e menti stanche, vita domestica in disarmo, secca delle idee. M. individua una vecchia compagna di scuola che fa finta di non vederlo e accelera col carrello mettendo in difficoltà l’equilibrio precario del figlio. A tre anni le zampetta intorno a stento tentando di scavalcare le ruote girevoli. M. se ne fa una ragione e devia alienandosi dal rito convenevole dei saluti. Forse non si incontreranno per altri dieci anni, forse al prossimo rifornimento di cibarie sottovuoto.

M. ha fame, il suo frigo è ancora vuoto. La pancia protesta ma la fila alle casse è diventata troppo lunga. C’è gente che si insulta e difende l’ ordine di arrivo per pagare. Brontolii dello stomaco in astinenza.

M. ha ancora fame, ma non compra niente.

Torna al parcheggio, accende il motore e sgomma di sbieco in direzione dell’uscita. Mozart redivivo, l’antracite appena sfregiata nel mezzo, il cielo forse si apre.

Ce ne faremo una ragione.

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