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Cormòn il Portalettere

  • Writer: Salvatore Enrico Anselmi
    Salvatore Enrico Anselmi
  • 11 hours ago
  • 10 min read
Vincent van Gogh, Il postino Joseph Roulin, 1888, Boston, Museum of Fine Arts
Vincent van Gogh, Il postino Joseph Roulin, 1888, Boston, Museum of Fine Arts


Vi voglio raccontare la storia di Cormòn, il Portalettere, mio amico fraterno, scomparso e mai più ritrovato.

Cormòn detto il Portalettere, Portalettere con l’iniziale maiuscola, perché ormai da trent’anni svolgeva l’attività di postino nel quartiere, quando tornava a casa si sedeva al suo posto in mezzo alla stanza dove mangiava e dormiva.

  Si toglieva le scarpe, le riponeva parallele, parlava con tono comprensivo ai suoi piedi stanchi e mentre li rianimava, massaggiandoli, cominciava a fantasticare.

Immaginava di essere un’altra persona e di trovarsi, ogni volta, in un posto diverso. Esploratore in mezzo alla giungla, amatore indefesso circondato da donnine profumate, oratore acclamato sul podio, ministro della salute pubblica in grado di sventare le gaffes del suo vicino di dicastero.

Al centro, un tavolo quadrato al quale l’uomo prendeva posto per nutrirsi, da un piatto tondo col bordo sbeccato, e fumare.

Cormòn fumava la pipa, un grosso arnese di schiuma concluso da una testa di marinaio che a sua volta fumava la pipa. Spesso si guardava allo specchio mentre sbuffava e, osservando suo fratello quasi gemello che faceva altrettanto, sorrideva per l’assurdità giocosa del considerare vivo, in carne e ossa, il suo doppio di schiuma.

Cormòn amava il tabacco speziato che emanava un aroma dolce, quasi oppiaceo. Quando il fumo si addensava come un banco di foschia a novembre, galleggiava appeso stabilmente al soffitto.

Filtrato dagli spiragli delle due finestre che segnavano un lato della camera, il fumo acquistava forme fluttuanti. Dalle gobbe, dall’andamento a serpente Cormòn traeva auspici e previsioni per i tempi a venire.

Aveva visto un ombrello aperto, che levitava come una vela gonfia, davanti alla carta da parati del muro, la sera prima di trovarne uno all’ufficio postale.

Cormòn chiese in giro, ai colleghi e ai frequentatori dell’ufficio, se per caso quell’ombrello fosse stato loro. Nessuno rispose di sì. Chi l’aveva al braccio, chi lo tirava fuori dal bagaglio, chi lo aveva appena riposto accanto alla porta d’ingresso.

Rimasto non reclamato per una settimana, Cormòn se lo portò a casa.

Annidata tra i refoli del fumo, aveva visto una donna sorridergli con lo sguardo di nebbia e le labbra arcuate come strie d’aria rossa al tramonto, la notte prima dell’incontro al caffè con una giovane che gli giurò amore eterno. Ma come la nuvolaglia invernale sciama con l’arrivo della bella stagione, una sera di aprile la ragazza se ne era andata via dal locale sorridendo a Cormòn e Cormòn non l’aveva più rivista.

Durante una notte bianca il postino aveva creduto di scorgere un paesaggio di alberi oltre l’insegna che lampeggiava sulla facciata del suo palazzo per invogliare clienti e donne senza sonno ad affittare una camera nell’alberghetto all’ultimo piano.

Gli alberi erano leggermente scossi dal vento davanti a un fondo di luce gialla come il sole. Avvolto dal fumo, Cormòn non si accorse che quel disco dorato fosse in realtà la lampada utilizzata per rischiarare il piccolo andito dove Cormòn dormiva, mangiava e fumava. Il giorno successivo, un uomo sconosciuto, incrociato nell’androne di un palazzo, rigattiere che aveva deciso di chiudere bottega e fare fagotto, gli aveva ceduto per forza a poche lire una grande tela.

«Prendila, postino, vedrai che ti porterà bene. Non uno solo dei miei clienti si è mai lamentato. Sono certo che a casa tua starà benissimo al centro di una grande parete ancora vuota».

«A quanto la vendi, rigattiere?».

«A poco. Quante lire hai in tasca andranno bene. Le prendo e ti saluto».

Il robivecchi appoggiò il quadro, dopo averlo avvolto in una spessa carta da pacchi come in un bozzolo, e si allontanò, sventolando il cappello.

Era un paesaggio verticale, luci a grappoli succosi e soli accesi su una tappezzeria blu cobalto di alberi che sembravano conoscere bene le storie annidate tra quei rami. Un paesaggio incantato era quello, come l’avrebbe potuto dipingere Odilon Redon, artista veggente come tutti coloro i cui occhi sono stati schiusi dal demone che forgia simboli ignoti.

Ogni sera, prima di mangiare da un piatto rotondo col bordo smerlato, Cormòn alzava un calice in aria. Quella sera, prima di decidere, e diventare altro rispetto a ciò che era sempre stato, brindò: «Alla salute dei fuochi accesi in cielo dalla notte, all’aroma profondo delle foglie parlanti nell’azzurro mare e dei cirri sui tetti!».

Gli brillavano gli occhi mentre ripeteva in quel brindisi i versi di un poeta a lui sconosciuto, Francisco Grandeto, morto giovane in esilio. Li aveva letti stampati sulla carta del dolce caramellato all’uvetta che Cormòn il Portalettere comprava ogni domenica per fare festa.

Nel suo smeriglio, il vetro tratteneva un liquido rubino dall’aroma legnoso di muschio e sole intrappolato nel mosto. Cormòn ne bevve senza riuscire a terminarlo, né a ubriacarsi. Affondò le labbra in quel mare per tutta la sera, fino a quando ritenne giunta l’ora di andare a letto, e il letto lo accolse con un abbraccio tiepido.

Decise di diventare pittore, così all’improvviso, dal giorno alla notte… Tra l’ultimo brindisi e il primo risveglio il giorno successivo.

Con i suoi risparmi comprò colori e pennelli.

Piazzò un cavalletto a tre piedi di fronte alla finestra e aspettò le ombre fluttuanti che il vecchio tendaggio forato, aderente alle finestre, avrebbe steso sulla tela.

E così avvenne.

Da bianca e aniconica, la superficie si animò. E accadde lo stesso con tutte le altre che si era procurato. Dipinse per ore senza fermarsi, fino a quando presero a fargli male le mani e le braccia, fino a quando gli occhi cominciarono a truffarlo e la stanza ondeggiò intorno a lui.

Si addormentò senza accorgersene. Reclinata la testa e sorridendo alla stanchezza.

Aveva raffigurato un gatto adottato da mani che sembravano le sue e un soriano, che da mesi girovagava senza meta nei vicoli del quartiere, gli entrò in casa dalle scale per infilarsi nel suo letto.

Aveva dipinto una donna sdraiata su un divano rosso, una figura affusolata, somigliante alla ragazza che aveva conosciuto qualche tempo prima al caffè, e una giovane, in tutto e per tutto uguale a quella, si trasferì la settimana successiva al primo piano del suo palazzo.

La sentì parlare al telefono con un’amica: «Sai ho trovato un appartamentino niente male. Sì, qui al vicolo del Soppasso, dietro casa tua. Devi vederlo, è carinissimo e poi mi costa una miseria d’affitto. I padroni sono una coppia di buontemponi, marito e moglie che mi portano la spesa tutti i giorni. Pensa che pacchia! E io li ricompenso cantando e suonando un vecchio pianoforte che era rimasto muto per anni nel loro salotto».

Cormòn aveva dipinto anche una bottega di macellaio con decine di ganci pendenti dal soffitto e appesi ai muri maiolicati. Entro pochi giorni il macellaio dietro l’angolo triplicò la sua mercanzia senza sapere bene come avesse fatto a comprare per poche migliaia di lire tutta quella carne. La gente, dai quartieri vicini della città, cominciò ad affollare il negozio e a fare incetta come se si preparasse a un anno di carestia o di solitudine coatta.

«A me, a me! Quel bel tocco di manzo. Datelo a me. Sono disposto a pagarvelo il doppio degli altri…Sapete stasera abbiamo gente a cena e se non porto niente mia moglie mi scuoia vivo!».

«Vorrei un buon pezzo per il bollito, grazie».

«Lascio, signora? È più di quanto m’ha chiesto…».

«Sì lasci pure. Anzi ne aggiunga ancora un po’».

Insomma tutto quello che Cormòn dipingeva diventava reale.

Un giorno raffigurò anche due lottatori panciuti, con la tuta a strisce bianche e blu, che se le davano di santa ragione. Qualche tempo dopo, nella sterrata lì vicino, tutta buche e sterpaglie, un circo issò il tendone con grandi bandiere rosse in cima.

 Si chiamava Circo Bidòn, non era un granché, a dire il vero.

 Pochi artisti con l’artrite, due trapezisti che soffrivano di vertigini, qualche bestia macilenta e un leone che sbadigliava insonnolito davanti alla frusta invece che aggredirla a morsi, perché il domatore era considerato dal felino suo padre putativo e la frusta in realtà era fatta su con la mollica di pane incollata.  I fratelli Bidòn, gemelli, erano i proprietari e, quando Cormòn se li trovò davanti per caso, non credeva ai suoi occhi … «Urca! Ma siete proprio voi. Uguali spiccicati…Vi ho fatto il ritratto mentre lottate, appena qualche giorno fa. Ma io non vi conosco e voi non mi conoscete. Giusto?».

«Giusto, caro signore», rispose Guillaume Bidòn, il più robusto tra i due, mentre si allisciava i baffi a manubrio.

«È la prima volta che abbiano l’onore di incontrarla», gli fece eco François Bidòn, stessi baffi a manubrio.

Cormòn portò il quadro ai fratelli lottatori e questi, stupefatti nel vedere sé stessi mentre uno le suonava all’altro, così come accadeva tutte le sere, decisero di comprarglielo per una cifra straordinaria con molti zeri in fila. Il dipinto diventò la principale attrattiva pubblicitaria del circo. Esposto su un cavalletto all’entrata, attirava il pubblico curioso di vedere come sarebbe andata a finire tra i due baffuti che promettevano botte da orbi.

«Ma allora, gran prodigio dei prodigi! È tutto chiaro. Dopo un po’ si avvera quel che dipingo!».

E così Cormòn si diede stabilmente alla pittura, giorno e notte.

Per me riprodusse un’auto nuova fiammante. Appesi il quadro a casa e due giorni dopo ebbi la notizia che quel taccagno di mio nonno aveva pensato bene, non so ancora neppure io perché, di comprarmi una fuoriserie rossa fiammante. In cambio avrei dovuto lucidargli le scarpe e leggere da un librone alto così una storia tutte le sere. Le condizioni mi sembrarono vantaggiose. Solo per leggere e tirare a lucido un paio di scarpe ci potevo stare. E ci stetti, infatti, con l’aggiunta di rimboccargli le coperte in cambio di tutta la benzina necessaria per dissetare il bolide. Quando si dice affetto disinteressato!

Per lo sciupafemmine qui all’ultimo piano, stanco di avventure passeggere, Cormòn dipinse una figura gentile di ragazza, padroncina della sua casa intenta a innaffiare le petunie. La settimana successiva Silvestro, amatore incallito, conobbe una giovane identica al ritratto mentre comprava rose e petunie da mettere in balcone. S’è saputo, dopo qualche tempo, che Silvestro e la ragazza si sono sposati e ora in viaggio di nozze intorno all’isolato.

Insomma i doni di Cormòn erano diventati una vera benedizione per la comunità.

Ormai la gente faceva la fila davanti al suo studio con richieste numerosissime e specifiche, sapendo che, una volta portato a casa un dipinto, un disegno, ma anche uno schizzo veloce tracciato alla buona, l’opera firmata dall’ex portalettere avrebbe comunque compiuto il prodigio.

E siccome la fila aumentava di giorno, in giorno, al punto da non permettergli più di vivere in modo normale, Cormòn ormai tracciava in anticipo e a grande velocità sgorbi e mezze figure che potessero compiere miracoli. In genere le richieste erano prevedibili, per cui era facile anticiparle.

Precedendo le commissioni ufficiali, Cormòn raffigurava due fidanzati, due sposi appena usciti dalla chiesa o dal Comune, un bambino alle prese con un gelato gigante e un’autobotte dei pompieri cromata, un giovane ben vestito, un altro giovane simile alla guida di un’automobile nuova, vacanze al mare e ai monti, guadagni da mettere in banca e via discorrendo. Si rivolsero a lui anche un candidato alle elezioni politiche e un mago della finanza affinché nel proprio ritratto figurasse ciascuno mentre giurava fedeltà alla Costituzione e mentre tagliava il nastro all’apertura di un nuovo stabilimento. Si scoprì dopo qualche tempo che il candidato, per essere comunque sicuro del successo, aveva barato con brogli e mazzette, e che proprio quell’imprenditore aveva aperto lo stabilimento petrolchimico produttore dei veleni che ammorbavano l’intera provincia.

Dopo un anno, Cormòn lavorava asservito come un cane alla catena, o meglio, come un operaio alla catena di montaggio, come un grande artista di fama internazionale pressato continuamente da galleristi e acquirenti, che firma tutto quello che gli viene messo sotto il naso. Anche gli scarabocchi tracciati dal figlio di quattro anni.

Tuttavia, col passare dei mesi, si stupì per il fatto che nessuno gli chiedesse di dipingere poverelli e malati che venivano risanati e messi all’ingrasso, vecchietti circondati da giovani, mariti beoni ricondotti all’astemia e mogli distratte che rinunciavano ai complimenti di un ganzo di passaggio.

Alcuna richiesta di pace sul fronte pervenuta.

Nessun trattato di perequazione sociale, nessun accordo anti-missilistico, nessuna aspirazione a cure miracolose contro le epidemie etiche e virali.

Anzi, gli si presentò pure un commendatore grasso che ebbe il coraggio di chiedergli «Una bella scena di battaglia, con tanto di morti e feriti da una parte e dall’altra, aerei bombardieri e navi ammiraglie a capo di una flotta!». E tutti i combattenti, da una parte e dall’altra, dovevano brandire le stesse armi, quelle prodotte dal grassone.

Cormòn lo rimandò indietro con un pretesto. Lo spinse fuori a forza e appese un cartello alla porta del suo studio: “Chiuso per inventario dei pennelli a setole di vaio e dei colori nella gamma degli ocra”.

Pretesto meno credibile non poteva trovare.

E anche per questo fu contento.

Una volta tanto, invece di condiscendere a una richiesta, era lui a porre le condizioni: «Oggi non si lavora» – disse a voce bassa – «per assecondare le voglie di chi pensa solo per sé. Oggi decido io…».

Cormòn guardò la sua mano destra sporca di colore, con le unghie cerchiate di nero, gonfia, dolorante. E per la prima volta dopo mesi si fermò. Lasciò sul cavalletto una tela bianca, passò in rassegna con i polpastrelli i tubetti a olio messi in fila. Li accarezzò con tocco lieve come si fa con la guancia dei bambini o con un amore delicato.

Si diresse verso la finestra e scorse la conversazione, pigolante e saltellata, di due uccelletti che si contendevano una mollica di pane. La spezzarono e ognuno ebbe la sua porzione.

Cormòn desiderò di essere libero come loro.

Da quel giorno nessuno lo vide più.

Il campanello senza nome, la targa “Cormòn, pittore su commissione” staccata dalla porta.

Lo studio inabitato.

Sul cavalletto una grande tela che raffigurava il bagno di quella casa. L’ho vista io in persona, con questi occhi, dovete credermi.

Devo dire, non un granché: una vasca, le maioliche sbeccate, un lavandino…E un ometto, piccolo piccolo, nel risciacquo di sapone dentro le tubature.

Come nel suo dipinto, Cormòn era stato risucchiato dal gorgo di schiuma che s’arrotolava nel suo lavandino difettoso.  Un bravo arnese, il lavandino devo dire, per lo meno fino a quel giorno: di proporzioni adeguate, liscio e accomodante, che beveva tutto lo shampoo in avanzo senza risucchio e non si intasava per i capelli che cadevano dal pettine.

Dopo averlo dipinto, ad apertura di rubinetto, lo stesso Cormòn, divenuto gnomo come nella tela, era scivolato nelle condutture e aveva fatto perdere le sue tracce.

Si dice che, superati i molinelli di limaccia e la cloaca scaricata dagli uomini nel mare, abbia raggiunto l’oceano infinito.

Mi sembra di vederlo, credetemi, mentre sverna nei mari del sud dentro un chiosco di grattachecche sulla spiaggia, con un’insegna sul tetto di paglia: “Cormòn, granite fresche su commissione”. 

 

 

 
 
 

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