Il breve racconto descrive la natura intesa come immagine della condizione propria del narratore il quale indaga sul valore etico del paesaggio, associa defezioni, indugi e deviazioni dalla verità come aberrazioni legate al tempo instabile tipico dell'inverno. Dall'inverno morale l'autore vuole prendere le distanze.
È un nuovo giorno, timido, come lo sono i giorni nel mese di aprile al mattino presto.
La luce è limpida, tesa, si estende sulle persone e le cose, sugli alberi e le case per rendere conto che il disegno è divenuto più nitido.
Offuscamento e defezione sono lontani, non li abbiamo mai posseduti davvero.
L’offuscamento perché il disegno era certo e i sensi affidabili, la defezione perché la scelta è avvenuta dopo un lungo tempo di attese, vigilie e pensieri sul modo di rendere quelle attese concrete, vaso d’acqua per bere e silenziare la sete.
Non abbiamo stracciato e abraso. Non abbiamo dimenticato o simulato di farlo.
Non abbiamo obliterato la mano stretta nella mano in accordo. L’argilla non s’è fratturata, il suono prodotto non era sordo, l’eco è tornata al punto d’origine, al motore dell’emissione di voce dopo una peregrinazione a balzi sulle rocce.
L’eco ci accompagna gagliarda e amica. Ci affianca pertinace sorella del braccio teso, dell’arto portante, dello scuotimento che muove il corpo, congiunge l’intento, la mira, l’occhio, il braccio, la mano al bersaglio. E centra, punta sul centro, oscilla e rimane.
Offuscamento e defezione, legati alle bizze di marzo, s’annodano ormai nel cielo più oltre, allacciati come sodali claudicanti, come alleati sottoscrittori della norma da infrangere. Compari dalla zoppia etica, dall’appoggio reciproco in fallace avanzata, s’ingannano a vicenda truccando le carte e i dadi. Imparano e dimenticano, apprendono e falsificano, ingiuriano e, sozzi nel cuore, intorbidano le acque, impastano i muri di sterco.
Instabilità e perturbazioni sono lontane. Perduravano in febbraio, quando era ancora solo inverno, nate in inverno quando una cuffia di gelo brinava i capelli, quando la spina del freddo indugiava nella pelle, conquistava un castone brillante e perforava la carne, quando la terra era croccante e fragile sotto la pressione del passo.
Ora lo spazio al di qua dell’orizzonte appare più ampio, la siepe canora di nuove, piccole voci. Nuove, piccole voci pigolano. S’intromettono l’una nel canto dell’altra. Salta e fugge il possessore gracile di becco a spillo e zampe nere. Alza il collo, s’appresta, con occhio lucido ascolta l’assolo che si espande nel petto. Picchiettato di bruno, innocente in cerca di semi, aerea struttura cava nelle ossa, nata per fendere l’aria col volo. Emette l’assolo, espande il petto come unica azione che comprende il breve, grandioso vivere per una stagione. Canta e ripete il suo nome, ugola vibrante e piumata, becco aperto a due valve, petto dilatato a cassa armonica.
Il canto prorompe sorgivo. S’innalza, s’acquieta, s’inerpica per la salita sassosa e s’abbandona alla radura verde gialla come gli occhi di un gatto.
La stringa di ciottoli conduce alla casa attraversando un giardino che trasuda dopo la notte. S’asciuga, sgocciola nel lusso del lume e al contrasto tenue del giorno.
È un nuovo giorno di erbe striate, oltre l’abitato dove comincia la macchia. La corrente ci passa attraverso, le innalza, le abbatte, le chiama in alto e dispone le pagine quiete di foglia con le lusinghe di antiche storie.
Appena crudele e con dolce ritmo.
Crudele perché s’affianca a un leggero dolore la gioia più acuta. Stilo sottile, mira formidabile, puntura sotto pelle. Le storie rincorrevano gli eroi, i ciechi lungimiranti, gli astuti ingannatori, i reduci della loro stessa vita, i naufraghi abbrancati al legno delle navi, i cavalli saettatori di criniere lanciate alla corsa, i piccoli e i grandi, i giovani vestiti di baldanza e brillanti d’armi, gli uomini possessori di occhi rappresi per scrutare lontano.
È un nuovo giorno, di erbe striate. Niente è certo e necessario più di quel respiro ondulato, dell’azione assorta che col solletico striscia la pelle.
E noi? Non possiamo fare altro se non cedere al respiro, rassegnare la resa all’ondulazione dell’erba, sorridere agli umori trasportati dal vento in soluzione aerea che illudono i sensi e placano.
Fragrante, la promessa del giorno squittisce e salta sui tronchi, come un cucciolo inquieto. Salta sulla corteccia fino al ramo. Da sopra traguarda oltre le foglie, fino a dove l’orizzonte dispone le linee ondulate delle colline.
È il richiamo del giorno al quale non può sottrarsi chi abbia sete di bellezza, fame di silenzi ancora avvolti nel sonno, istinto portentoso per superare ciò che è troppo vicino e tendere al paradosso, al richiamo del sole, all’azzurro smerigliato della corona distesa dal cielo.
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