Ho contato a ritroso trenta giorni che mi separano da te
Ho contato trenta volte, trenta giorni in cui sono tornato
per abitudine, per rabbia mai sedata, per insonnia poco mansueta
ad appoggiare i piedi a terra, come fisica adesione,
a respirare, ingurgitare cibo e millantare vita
per macchinale codardia a rimanere ancorato a questa vita.
Ho contato i fiori della tua veste da camera
Ho contato le frange della coperta sul tuo letto
piatto e inabitato come un pianoro.
Ho contato le luci filtrate dai vetri della tua finestra
stampigliarsi sul muro nero e scivolare dal soffitto
come testimoni distratte da nuovo fluire,
filamentose chiamate all’appello, vacue meduse svanenti
che si prendono gioco di me,
di un’attesa senza meta certa e immediata.
Fluire furioso e orbo mi dice che altro c’è ancora da fare.
Ho contato verdi vene sul mio braccio stupito e fiacco
Ho contato le pene sul petto
come le decorazioni di un soldato che avanza in ritirata
come un arto sottratto dallo scoppio, dall’assenza che piange, sgocciola e stilla.
Altro da qui permane come inquilino, come ospite inatteso,
come detentore maligno, infilato di soppiatto negli interstizi,
nelle orbite vaganti del pensiero, del pensiero sarcastico che addenta la carne
nelle pieghe deboli della camicia, tra i rebbi freddi della forchetta
tra i denti lontani del pettine, tra le dita impacciate
a legare il laccio tranciato ora per gioco,
per guercio alternarsi d’inciampi
che s’aspettano all’angolo di tramontana
e si tengono per mano come fratelli.
Ho contato a ritroso. Trenta, trenta e altre trenta volte
Finché non sarà più possibile enumerare.
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