ll 27 luglio 1929 veniva pubblicato il primo romanzo di Alberto Moravia: "Gli indifferenti". Di Moravia e della sua statura di romanziere non si parla quasi più, il suo nome sembra purtroppo essersi aggiunto a quello di tanti altri autori, discussi e notissimi in vita, la cui fortuna è declinata dopo la morte. L'inesorabile cono d'ombra ha fatto seguito a un ruolo tra quelli più centrali del Novecento letterario italiano forse troppo coinvolto con il presunto dominio di certe parti e fazioni di intellettuali contro altre. Sembrano trascorsi molti più anni di quelli che realmente intercorrono tra la prima uscita de "Gli indifferenti" e il nostro tempo, onnivoro, incolto e smemorato, tra quella generazione di scrittori e buona parte dell'attuale che ha fatto dell'impoverimento del pensiero, della perdita di reali contenuti da trasmettere, dell'approssimazione stilistica e dell'impaccio nel conferire credibilità a trite vicende di cronaca, di sesso e mistero la propria logora bandiera. In luogo della disincantata sezione in cute della carne borghese che Moravia operava, quasi da "anatomo-patologo" della società a lui contemporanea, asfittica e liberticida, oggi lo scrittore avveduto millanta credito occupandosi della fenomenologia del suo ombelico. E' come se bastasse un'ambientazione risalente a qualche decennio fa, con un forzato spostamento all'indietro della cronologia, per credere di aver scritto un romanzo storico senza alcun fondale e fondamento. E' come se fosse sufficiente parlare della crisi d'identità generazionale per triti e banali luoghi comuni per ritenere di aver licenziato un romanzo introspettivo o di formazione. Per essere contemporanei è sufficiente essere banali e sciatti, adottare una sprezzatura ribaltata, coltivare una presunta profondità interiore ma non essere più chiamati a estrinsecarla nel testo? Auspico di no. E' sufficiente lanciare i personaggi sulla scena senza delinearli, accennare a luoghi fisici e mentali senza definirli, è sufficiente affermare che esista qualcosa o qualcuno che in realtà latita nella pagina scritta? Auspico di no. E' sufficiente inserire nella storia un politico per scrivere un testo di impegno civile, un artista o un letterato per scrivere un romanzo di impegno culturale?Nel caso sia così è diventato dunque necessario gabellare, diciamo così, il lettore facendogli credere che oltre e dietro le parole rilasciate quasi in libertà ci sia ben altro, per lusingarne il presunto acume. Tuttavia non c'è bisogno di alcun acume per decodificare significati e valore da ciò che non ha significato e valore. Avremmo tanto bisogno di una generazione di nuovi Moravia, Pavese, Vittorini, Bassani, Tomasi di Lampedusa, Pasolini, Ginzburg, Parise, Fenoglio, e la lista potrebbe essere molto lunga... Auguro a tutti noi una nuova generazione di scrittori pensanti: pensanti alla lingua da non più vilipendere, pensanti alle tematiche, alle battaglie civili e culturali da dover sostenere. Perché il disimpegno dovrebbe essere morto non la militanza.
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