Il mio petto langue
e s’inerpica per l’erta più acuta
e muta d’assoli, di piccoli gioghi, di docili ombre
di alti strapiombi e frecce passanti.
Ho fermato il sangue e lo spasmo
ho fermato i miei passi e lo squasso
per non essere infelice e indotto allo scialo.
Ho fermato il tremore e l’assalto
il guasto riguardo e ora da più lontano
mi osservo come fossi un altro.
Ero io che gridavo per far giungere la voce da cima
alla valle, centuplicata nei rivoli ad eco?
Ero io che miravo sicuro al più rosso e centrale bersaglio?
Ero io che sfidavo l’abisso ventoso, la rupe sassosa
e brulla come la terra bruciata dal gelo?
Il mio petto langue e lo ascolto.
Il mio petto risuona e le paratie che lo trattengono
non sono tenaci tanto quanto
dovrebbero.
Il mio petto s’acquieta e tu vita
con esso, con esso t’acquieti
ritorni alle nenie e ai canti lontani.
Il cielo di peltro e la terra di ghisa
gli alberi bianchi e orfani di mani fogliate
attendono che torni il giallo
del vento flessuoso come flauti accesi nel canto
che si brucino le terre dei pruni
e che sgorghi il nettare a gocce stillato
come se l’abbraccio di festa
non dovesse mai più avere freno e resta.
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