La strana coppia è formata da due che insieme non li metteresti mai uno vicino all’altro per dire – «Diventeranno amici», oppure - «Questi due sono amici». O ancora - «In fondo si somigliano».
Uno alto quasi due metri, grasso, lucido e molliccio come un lottatore di sumo. L’altro piccolo, piccoletto.
Il primo di qualche anno più giovane del secondo.
Uno con gli occhi sfilati, a mandorla, strappato da una stampa giapponese, l’altro con due uova al tegame dietro gli occhiali.
Uno con i capelli liscissimi senza appello o increspatura, l’altro con le onde a cannolo sulla testa che sembrano essere state fatte apposta.
Uno indolente, silenzioso, flemmatico, nato stanco. In perenne depressione post coito, senza coito.
L’altro in moto perpetuo e perpetuo istinto di ingannatore, sempre occupato a parlar male, leccarsi le dita, mangiarsi le unghie. Vorrebbe concludere con una biondina o una brunetta di passaggio, una signora gaudente e ben disposta che potrebbe anche starci comunque, malgrado la ripugnanza del bassetto, ma il bassetto è tale e non ci arriva.
Uno si muove lento, l’altro, nel frattempo, nel raggio di due passi compiuti dal lottatore stanco, ha azionato le gambette corte almeno otto volte.
Bianco cadavere in faccia l’uno, l’altro rosso tinteggiato di fresco sulle guance e sul collo che sembrano essere stati attraversati da un aratro invece che dal rasoio mattutino a testina snodabile.
Entrambi accomunati dall’indossare camicie troppo grandi, con i polsini che spuntano come due lattughe, da sotto le maniche del maglione o della giacca e si ripiegano in fondo, dando alla mano, al braccio, all’intera persona, l’aria da straccione imborghesito, da nullatenente che ha appena fatto fortuna, ma ancora non ha avuto il tempo di accorgersene e sostituire il guardaroba. Quello grande e grosso, perché compra alla cieca nel reparto taglie forti, quello piccolo perché taglie più rachitiche nel reparto adulti non ne trova. E allora sarebbe costretto a fare acquisti in quello per bambini, ma di solito non s’arrischia per non far pensare alla commessa di essere curtulillo dappertutto.
Uno parla lento, senza guardare troppo negli occhi, a testa bassa, mentre allontana, con la mano grassottella, che conserva segni di penna sulle dita, il ciuffo periodicamente calato davanti alla fronte. In corrispondenza delle nocche porta ancora le fossette di quando aveva cinque anni, ma da allora con quelle mani, da gentildonna disossata, che sembrano essere state dipinte da un ritrattista di corte convenevole, un Beaubrun secentesco e convenevole, ha mimato versi lascivi a tutte le sue compagne di liceo che, quando lo rivedono o ci ripensano, rabbrividiscono.
Con quelle mani a palanca tentava di sfilarsi i pantaloni nel bagno delle ragazze e altrettante volte le ha prese dalle compagne ed è stato sospeso per oscenità.
Con quelle mani senza sostegno di cartilagine ha cucinato negli anni solo per sé malinconici manicaretti segosi, e ha annodato il grembiulino a balze sui fianchi tondi.
Si dice che con quelle mani abbia sgozzato personalmente pollastri e conigli che poi s’è mangiato dopo opportuna cottura al sugo ristretto e rosmarino. Meglio ad arrosto morto.
Si dice che, sceso in cantina dove tiene il pollame e qualche ovetto nella paglia, cominci a parlare arrotando gentilmente le erre. Con tono pacato e suadente, racconta una storia campagnola al pennuto che muove la testa a scatto, sbarra l’occhio e ci crede. Abbindolato l’uccello da brodo, lo afferra a due mani e lo stecchisce. Di solito con un colpo secco gli rompe il collo e quello, a testa reclinata, dice sì.
Il bassetto, invece, parla sempre, a raffica, a macchinetta con una voce continua, vagamente anfibia, qualora un rospo possa avere voce simile a quella di un uomo. Anche al telefono. E, mentre con una mano s’aggiusta l’auricolare per sentire meglio, con l’altra scrive geroglifici, svirgola segni abbreviati, stenografa sgorbi incomprensibili che lui stesso poi ha qualche difficoltà a decifrare. Quando si libera inserisce una salsiccetta tozza, di solito l’indice, nella narice destra, quasi nuovo Tristan Tzara al Cabaret Voltaire di Zurigo, e alimenta l’inconsulta pantomima della dettatura a sé stesso per trarre dal suo informatore quante più notizie certe sull’accaduto. Scrive ancora e replica l’escavazione che talvolta si conclude con il rito dell’assaggio in punta di falange, porgente, e in punta di lingua, ricevente. Il problema sorge quando quella stessa mano viene stesa, a fine incontro o conversazione, all’interlocutore che vorrebbe sottrarsi al contatto. E di solito ci riesce svicolando tra la scrivania e la poltrona.
La montagna adiposa e il bassetto sono stati raccomandati entrambi in redazione. Spinti dentro a viva forza da forze più o meno palesi. Dal padre, principe del foro, già difensore di politici corrotti, uno. Pressato come la carne in scatola da senatori e giornalisti in fama di mammasantissima, l’altro.
Ex compagno figlio della buona società marchettara, uno.
Ex compagno quando nella sezione sotto casa c’era una ragazza che gli piaceva, diventato destrista e ambidestro a seconda della belloccia di turno che volantinava, ciclostilava, l’altro.
Uno non s’era mai sposato e non c’era sulla faccia della terra chi potesse giurare d’averlo visto con una donna. Sposato, sposatissimo e con figli, abbandonati dovunque, l’altro.
Quando il primo fu imposto nella stessa redazione dove anche il secondo era stato infilato dallo scribacchino di un boss della mala, uno fu ritenuto dall’altro un gran porta-sfiga.
Bruno, torvo, quasi sempre vestito di scuro, addetto alla cronaca nera, sembrava incarnare alla perfezione il ruolo di menagramo. E un po’ ci marciava. Della serie «Non mi contrariate troppo, altrimenti vi scateno addosso pleurite catarrale e mal sottile».
Frizzante, effervescente, incontenibile, criticone e malevolo come pochi, il bassetto volteggiava piroettando senza tutù o calzamaglia aderente, ma con la grazia di una prima ballerina e la stessa certa perentorietà del porteur saldo sui garretti. Agitava, a sottolineare il discorso, le corte salsicce indossate al posto delle dita a conclusione delle mani. E ogni tanto se le leccava compiaciuto di poter contare su quella garanzia di gusto genuino autoprodotto.
Recitava a soggetto, col solo canovaccio, ora il ruolo dell’impegnato cultore letterario, ora del devoto credente e intervistatore vescovile, ora di capo cronaca issato su una doppia razione di doppi cuscini per arrivare alla scrivania di autentica fòrmica scorticata. Per assicurare i piedini ed evitare che rimanessero penzoloni, a galleggiare nel vuoto, s’era fatto costruire una pedanella di legno leggero, facile da spostare. Aveva ereditato lo scranno in vinile, nobilitato a imitazione del legno di noce africano del lago Vittoria, da quello che prima di lui aveva occupato lo stesso posto. Anche lui sposato, sposatissimo che in ufficio aveva celebrato l’anniversario di nozze con moglie e figli, salto del tappo e pastarelle. Ricondotta lontana, a casa, la venticinquennale compagna di vita, aveva cominciato a farsela con la segretaria personale. La ragazza, aguzza di viso e di naso, zigomi prominenti su una faccia lunga e beccuta da uccello, aveva occhi vivacissimi e prensili. Era stata malata. Ma da quando dava la sua attenzione al capo, i dottori sostenevano che stesse guarendo, per cui da quel momento il capo assurse a ruolo e postura di guaritore affermando di avercelo taumaturgico.
Il pennellone adiposo sudava sulla tastiera del pc, arava e batteva sui tasti facendo quasi rimbalzare la tavoletta sulla quale digitava caparbiamente. Già in quel periodo aveva un serio problema che si sarebbe trascinato negli anni: alimentava velleità che credeva potessero eccedere quelle della semplice comunicazione informativa. Per tradizione diretta e sintetica. Quando impastava gli articoli di colore o di approfondimento culturale, debordava verso costrutti ottocenteschi, astrusi che venivano bollati dagli altri redattori come testi adatti a essere appesi al muro e usati come tirassegno per le freccette. Lo facevano un po’ tutti, anche il coordinatore della cronaca provinciale, scrittore di aforismi a tempo perso, con resti tardivi dell’acne giovanile sulle guance che tentava di nascondere con la barba. Credeva di essere un gran fico anche se sprovvisto di deltoidi, con le spalle drammaticamente spioventi sotto il collo grosso. Portava i capelli come si usavano dieci anni prima, aveva un tic all’occhio sinistro e si palpeggiava spesso.
Non conosceva le t e le c, che per lui erano inderogabilmente tutte e comunque delle d e delle g. Univa anche una dizione blesa. Credeva che scontento fosse solo un aggettivo qualificativo e non anche un sostantivo. Dopo averlo appreso alla tenera età di trentaquattro anni, avrebbe cominciato a usarlo sempre, in modo pertinente e a vanvera, come un bambino che si porta a letto l’ultimo giocattolo che Babbo Natale gli ha donato per essere stato buono. Quando credeva di aver pronunciato fatidiche parole di brillante verità, per la contentezza tornava a palparsi insistentemente il cavallo dei pantaloni, per compiacersi che tanto acume fosse il combinato disposto dei suoi attributi.
Il lottatore di sumo e lo scrittore di aforismi si odiavano perché il primo aveva planato in redazione spinto da dietro, scavalcando l’altro nel procedimento di assunzione, una volta superato l’esame da professionista. E il lottatore odiava l’aforista perché aveva messo in giro la voce che lui fosse «un sinistro porta zella». Del resto la fama di porta zella se l’era caricata sulle spalle già dall’altra redazione. Anzi era stata costruita e consolidata proprio tra le mura di quella redazione cronaca che attribuiva al taciturno nipponico la responsabilità del calo a picco delle vendite.
L’aforista puntava le ragazze e le signore più mature. Alte, basse, snelle o formose, castigate o vistose, sposate, vedove, separate, divorziate, nubili e di bella presenza, con i capelli lunghi, corti, cortissimi, senza capelli e solo con parrucca, intelligenti o sprovvedute, issate su trampoli o su scarpe da ginnastica.
Andavano bene tutte. Ci provava sempre, indefessamente senza giorni di riposo e festività soppresse retribuite.
A casa, nel suo paesello collinare dove tutti pronunciavano soltanto le g e le d al posto delle c e delle t, aveva anche lui una fidanzata a mezzo servizio, che visitava nei giorni di magra, portandole il solito mazzetto sgozzato di margherite puzzolenti e un cabaret di paste. Come se fosse andato in visita da amici. Negli anni successivi se la sarebbe sposata pure, in chiesa, per accontentare il parentame. I genitori e i nonni della fidanzata sarebbero trasaliti per la gioia alla notizia della marcia di Mendelssohn da poter ascoltare nel giorno fatidico. S’accanirono, fino ad accapigliarsi, per approntare i preparativi e cominciarono a non segnarsi più ogni volta che si parlava dell’aspirante scrittore di massime, di haiku fallati e di articoli diffamatori, che s’era finalmente convertito e stava per diventare loro figlio e nipote.
Negli altri giorni, lontano dai nuovi genitori, zii, cugini, consanguinei acquisiti, ascendenti e discendenti per legge, l’aforista riarmava il fucile a pallettoni e dichiarava di nuovo aperta la caccia. Confidava nella brillantezza di idee, nel quadernetto di massime da declamare durante la cena, smagliava il sorriso splendente, sbottonava la camicia per mostrare la rada peluria sul petto floscio, e si lamentava di non possedere polpacci o quadricipiti convincenti per risvegliare la mammina che sonnecchia in ogni ragazza pronta a consolare. Ma l’età delle consolatrici a oltranza si stava per concludere e molte, più di quante temeva, lo mandavano a farsi un giro, a tagliarsi i capelli in modo decente, a iscriversi in palestra per tirare su le tette, a imparare finalmente a pronunciare con accento civile le t e le c.
Un altro collega della strana coppia era Armandino, Dino per gli amici. Usciere in seconda negli uffici della Regione, secondo piano, scala A, era stato graziato. Sgrullato dalla guazza, iscritto a un corso serale per aspiranti giornalisti, ammaestrato come le foche monache a prendere la palla al volo col muso baffuto, a battere le pinne a comando e a ridere alla peggiore battuta mai sentita, scriveva a comando e su ordinazione. La sua giornata si svolgeva sedendosi a una scrivania, con le gambe sul tavolo, stravaccato sulla poltroncina da ufficio molleggiata. Era quasi sempre al telefono, fumava, puzzava di sigaro, scorreggiava e parlava al telefono.
«C’ho i miei canali, io. Che mi danno le notizie fresche, fresche. No come voi fresconi, sguatteri, schiavi schifosi che dovete andare in giro a chiedere l’elemosina a destra e a manca, E nessuno vi si fila di pezzo. Barboni!».
Dino scriveva sotto dettatura, soprattutto del segretario del partito che l’aveva imbucato lì allo scopo. Inforcava la cornetta tra la testa e una spalla. Tentando di non farsi scivolare dal naso gli occhiali con lenti a fondo di bottiglia, sbraitava con vocione gutturale, quando doveva far sentire a tutti quello che diceva. Sussurrava quasi da innamorato, pigolava, sospirava quando non voleva che gli altri capissero con chi e su cosa si stesse intrattenendo.
Il segretario del partito gli faceva rilasciare dichiarazioni posticce sullo smaltimento posticcio dei rifiuti, sulla coalizione di centro-destra, sinistra, alternativa, sulla crisi imminente di governo territoriale, sui nuovi feudi conquistati dai capoccioni trentennali che si spartivano gli appalti.
Niente di quello che non si doveva sapere trapelava dagli articoli sgrammaticati scritti da Dino. Tutto di quello che faceva comodo che si sapesse si leggeva a chiare lettere. Dino non sprecava mai neanche un po’ della farina del suo sacco. Impiegava solo farina altrui, diligentemente setacciata e separata. Quanto doveva rimanere segreto e ignoto veniva riposto con diligenza in cassaforte.
Dino era il raccomandato di ferro del Dottore, politico panzone, che ancora andava vestito come quando era soltanto l’ambizioso e grasso figlio di un commerciante che aveva piazzato prosciutti e insaccati nelle borse di tutti quelli che conosceva e che potevano aiutare il rampollo. Questo, insaccato pure lui in un cappotto a quadri che sembrava uscito fuori da un guardaroba di vent’anni prima, col basco pomellato al centro e visiera convessa da bolscevico senza esserlo mai stato, portava a tracolla un borsello di pelle a cinghia lunga, uno di quegli orrendi cimeli anni Settanta che ancora esistevano. Conosciuta quella che sarebbe diventata la moglie, destinata più volte ad essere cornificata con una pletora di segretarie, aspirati politicanti e cultrici del politichese, sia scritto che parlato, si sarebbe dato una ripulita generale. Vestito scuro e cravatta in tinta, taglio d’ordinanza, occhi lucidi e leggera bavetta laterale che indicava appetito robusto, di ogni tipo, e disponibilità a estinguerlo in ogni modo.
Dino era un creato del Dottore. Un suo uomo, inserito nel suo libro paga, come tanti altri. Anche Ilenia, seduta in redazione al tavolo confinante con quello occupato da Dino, aveva tentato di entrare nell’harem del Dottore, ma c’era rimasta per poco tempo perché, a suo dire, il Dottore ripugnava troppo quando, sfilatosi il portafogli pieno di banconote e santini dei più accreditati protettori, i pantaloni, le calze corte con l’elastico floscio, la camicia col colletto nero già dopo due ore, rimaneva in maniche di mutande. La panza era troppa, e scrosciava al di sotto dell’elastico giro vita, come un pannicolo adiposo lucido, glabro, che faceva trasparire il verdognolo delle vene. Solo appoggiarci la mano sopra la faceva trasalire di disgusto.
Ilenia era soprannominata Boccadirosa perché come la protagonista della canzone, che per altro e per uno strano accanirsi del caso risuonava spesso in redazione, metteva l’amore in ogni cosa. E per questa sua condiscendenza, che si dimostrava particolarmente spiccata a vantaggio di chi detenesse autorità, da un micro potere in su, Ilenia era sempre oberata di lavoro. Non solo allo scopo di scrivere. Aveva freddo in ogni stagione, e in ogni stagione era alla ricerca disperata di chi glielo facesse passare. Mani violacee anche a maggio, zazzera riccia e mesciata, fumava come una ciminiera, portava anelli solo al dito indice, a destra e a sinistra, e affiatatasi con il cugino del caposervizio economia, pensava di fare buoni investimenti per il futuro. Fintanto che madre natura la sosteneva ancora, doveva combattere fino all’ultimo. Temeva infatti che, superata la quarantina, incipiente, arrochita la voce e ingrigito il colore del viso e dei capelli alla radice, sarebbe stata soppiantata da una più giovane redattrice masterizzata in comunicazione. Per il momento stava con il cugino del caposervizio. Abbronzato anche il 2 novembre, saunato, massaggiato, sale e pepe sulle tempie, credeva di incarnare il prototipo dell’uomo che non deve chiedere mai, in bilico tra l’Alain Delon dei senza talento e un manzo d’allevamento intensivo, tirato su a forza di antibiotici. In pieno inverno si presentava a lavoro in giubbotto da aviatore della Grande Guerra in licenza premio, con sotto il cardigan sbottonato sul petto villoso e catenazza d’oro. Fintanto che Ilenia e l’aviatore rimasero insieme, Ilenia usufruì in redazione di un apparente e frontale rispetto. Quando Ilenia cominciò a rivolgersi altrove, perché stanca di incarnare il ruolo dell’aspirante professionista che redigeva anche gli articoli per conto dell’aviatore, il rispetto frontale si trasformò in discredito frontale, posteriore e laterale. Ilenia fu estromessa dal giorno alla notte e mai più rivista.
Oggi, la strana coppia formata da due che insieme non li metteresti mai uno vicino all’altro, uno alto quasi due metri, grasso, lucido e molliccio come un lottatore di sumo e l’altro piccolo, piccoletto, hanno conquistato la pensione e la pace dei sensi. Ma sono ancora posseduti da un’altra inquietudine, quella che li costringe a scrivere. Hanno cominciato, in verità con scarsa fortuna, a redigere saggi e romanzetti. E a presentarseli a vicenda, uno fine dicitore soporifero a vantaggio dell’altro.
L’ultimo libro del lottatore di sumo glielo pubblicherà Biondich, titolare della Biondich edizioni, che tuttavia si dichiara perplessa per il suo tenore troppo elevato e di nicchia. La storia, infatti, parla di abigeati, di greggi disperse e cadute negli strapiombi, di un fittissimo mistero che si apre con una seduta spiritica nell’ovile, costruito sul terreno maledetto di un’antica area sepolcrale celtica. Il rito sarà seguito da una misteriosa telefonata notturna da parte del pastore Gavino, capo della banda degli sgrassatori, che nel frattempo è stato coinvolto in un rapporto a tre, lui, lei e una signora, che presenta tutte le caratteristiche della romaziera Gressy Rosenwald, nel ruolo della vergine legatoia. Il caso sarà risolto da un criminologo di fama internazionale, libidinoso sbirciatore seriale di sotto in su nei supermercati aderenti al tre per due, che, facendo leva sulle zeppe di papà, luminare pediatra, nel tempo libero è riuscito a imbroccare un concorso per associato alla Libera Università delle anime perse, ma soprattutto ha avuto accesso ai piani segreti della banda.
L’ultimo romanzo del nipponico senz’ossa si intitola Storia di una scrocchiazeppi, mentre l’altro ha appena finito di scrivere Cronache lasche di un reporter a mezzo servizio.
Uno ha plagiato dall’altro. Lo scartafaccio provvisorio delle Cronache è andato a finire non si sa come sul tavolo del gigante quasi buono e la Storia della scrocchia sulla scrivania del bassetto. Per leggerlo meglio questi s’è comprato pure tre cuscini e adesso ci arriva allo scrittoio. Armato di matita rossa e blu, svirgola capzioso sul manoscritto dello spilungone e segna tutto con grande piacere. Però, guarda caso, ha trapiantato copia e incolla, metà di quel libro nel suo. Adesso che ha finito alliscia contento la carta delle prime bozze, le bacia e le abbraccia come fossero una donnina compiacente e riesce a dormire con la testa rovescia sulla cianografica.
Il nipponcio ha deciso di presentare la Storia di una scrocchiazeppi nella sala d’ingresso di un sushi bar che si chiama “Letture e lattughe” perché le specialità della casa sono le presentazioni di nuovi libri, condite con paninetti al sesamo, tofu e foglie di lattuga annegate in salsa piccante. Glielo presenterà Giorgino Bello, naso schiacciato come se avesse preso in faccia un colpo di porta da piccolo che è, invece, il segno dello spintone raccomandatario ricevuto per poter ingranare il concorso da ricercatore e poi quello di seconda fascia.
«Ma possibile che non trovi qualcuno che ti raccomandi per l’università? Se tutto va come deve non mi ci vedete più in questa topaia di facoltà!»
Il piccoletto, invece, ha scelto una sala scommesse, una succursale decentrata della società Punta poco, ma punta che ha sedi in ogni quartiere disastrato del paese dove chi non ha spiccioli neanche per comprare il latte, li gratta dalla borsa di mammà e se li va a giocare. Il gestore del locale ha il pallino della scrittura. Tenutario di sala e poeta a tempo sperso, ha messo a disposizione il locale pur di tentare la carta della pubblicazione. Tanto oggi un libretto, un romanzetto, una storiella pruriginosa non si nega a nessuno. Lo sa anche quel buonino di Gigetto, voce flautata e guardaroba dimesso, promotore delle giornate di studio sulla non letteratura gabellata come stato dell’arte sulla narrativa italiana contemporanea organizzate nell’aula magna sironiana stile fascio proprio da lui, cultore ammansito e negazionista dello stesso fascio.
Gigetto, che spera di ricevere contante fresco pulito dal gestore per mettere su un’agenzia di consulenza editoriale, presenterà il prossimo mese L’amore del dolore m’ha provocato un colpo al core, l’ultima raccolta delle poesie di quello, sgrammaticarelle, lubrichine, oscillanti tra il deiettabile orale ad avvenuta lettura dopo i pasti, e il conato deferito.
Successo editoriale assicurato. Copie prenotate e posti in piedi!
Altro giro, altro regalo!
Venghino, signori, venghino a rimirare la donna che ingoia sette spade in un colpo solo mentre legge Cronache di poveri amianti!
Venghino a deliziarsi con l’uomo bendato che mangia il fuoco dal naso, lo sputa dalle orecchie e, tra uno sputazzo e l’altro, declama Orsù dunque, perché m’hai lassato a morir in un campo di seborroica gramigna! Pièce in due atti con cambio scena a vista.
«Mala dembora gurrund!». Concluderebbe l’aforista.
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