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MY RESEARCH BLOG

  • Writer's pictureSalvatore Enrico Anselmi

Family

Updated: Sep 2, 2021




In una delle foto più famose di Elliott Erwitt, Family, scattata nel 1953, un anello di condivisa, tenera confidenza familiare è stato tracciato grazie allo sguardo che sa essere così intimo e universale come solo la percezione e la prospettiva affettiva circa l’oggetto privilegiato di quello stesso affetto può essere.

Su un letto, in prossimità di una finestra aperta per cercare frescura e aria circolante, durante una delle estati più torride ricordate dallo stesso artista, si contendono l’attenzione dell’osservatore Brutus, il primo gatto che abitualmente frequentò casa Erwitt, la prima figlia, Ellen, e la prima moglie del fotografo, Lucienne VanKan. Nero, in controluce, ombroso e assorto nei suoi pensieri e allo stesso tempo vigile comprimario della scena, il gatto. Il piccolo felino, che sembra essere stato tracciato con segni compatti di carboncino dato a corpo e sfumato per apparire come una sorta di sagoma presente ed evocata da quel luogo, da quello spazio e in quel momento, è la figura cerniera di questa immagine alla quale siamo introdotti per compiacerci, beati e compiti, assorti e totalmente conquistati.

Per lo meno a me è accaduto questo la prima volta e si ripete quando rivedo la foto, splendidamente lumeggiata e inchiostrata di plumbeo in contrasto calibrato con l’algore dei bianchi e dei grigi, lungo tutta la parete liscia e in ossequio alla pieghettatura grinzosa del letto.

Siamo benevolmente irretiti da questa immagine di altrettanto totale conquista, quasi adorante nella resa che è contemplazione e tributo da parte di una madre nei confronti del proprio figlio. Contemplazione ceduta al sonno propriamente da parte della madre. Il corpo proteso, la testa reclinata, l’arcuato appoggiarsi zigzagante della schiena e delle gambe segnalano quasi l’intollerabilità della visione che si può sostenere soltanto appoggiando il capo, piegandolo su un lato come quando si dorme, o perché già si dorme, o come quando l’oggetto dell’osservazione provoca nell’osservatore un misto di deliquio e adorazione.

Sono ierofanica affermazione di una perfetta inalterabilità il piccolo corpo rimesso al sonno, il minuscolo dio dormiente, la minima e possente valenza divina che, dalla vita appena iniziata, è conferita come elargizione superiore alle stesse forze dell’essere che l’ha generata. Ma si tratta di una sacralità tutta umana, intima, percettibile nella giornata odierna, afosa e intollerabile, all’interno di un ambiente domestico che appare dimesso e informale.

È la poetica del qui e ora, qualunque sia il qui e qualunque cosa significhi ora.

Come dire che la perfetta e non tranciabile circolarità dei moti, degli affetti, dei gesti intimi, che si consuma in uno spazio trascurabile, acquista la valenza di poema, di testo che è stato scritto affinché non venga dimenticato, trafugato dall’inerzia o abraso dalla negligenza. E per quanto gracile poema dell’oggi, e forse proprio per questo, è grandioso e microcosmico nel contempo, è in grado di narrare ai più tuttavia comprimendosi in un contingente spazio minimo. E forse è proprio per questo che riesce a imporsi con tanta veemenza, quieta veemenza, evocatrice di un canto semplice, potremmo dire elementare, depotenziato dalla massima carica, da qualsiasi paludamento retorico, da qualsiasi belletto che deforma, da qualsiasi effetto stucchevole e dolciastro. Non la melassa che trasudava dalla famiglia perfetta anni Cinquanta, che l’America ottimista e maccartiana del secondo dopoguerra propagandava, ma l’autentica, inchiostrata e poderosa intimità tra un gatto, una bambina e una giovane donna accanto. Sebbene occupino un piccolo appartamento nell’ Upper East Side a Manhattan, questi tre protagonisti, a portata di mano familista, sembrano condividere piuttosto un’atmosfera appena sopraelevata, e non troppo distante, rispetto a quelle de I Sotterranei di Kerouac. Sembrano aver fatto i conti, e aver vinto, con le certezze da vagliare ogni giorno come i personaggi de L’uomo in bilico di Saul Bellow, o dei romanzi di John Fante. Ed è proprio per questa loro autentica umanità che appaiono giganti di una scena con l’intonaco sbrecciato, eroi di un palcoscenico prosaico e mite, guardiani dell’abbandono e abbandonati essi stessi alla fiducia reciproca.

Il tempo ha dato ragione a questo teorema di affetto perché, sebbene Erwitt abbia divorziato dalla prima moglie, la piccola Ellen e l’altro figlio della coppia, Misha, diventato fotografo anch’egli, hanno sempre potuto attingere all’umore secreto dalla loro unità familiare di origine anche quando questa è venuta meno, fisicamente come piccola comunità costituita da condivisori della stessa esistenza.

Di quell’amore sono stati oggetto Ellen e Misha.

Di quell’amore è stata sempre soggetto attivo Lucienne, madre presente nella vita dei suoi figli.

Di quell’amore è stato oggetto, fin tanto che ha ritenuto opportuno per sé frequentare casa Erwitt, l’indipendente Brutus.

Di quell’amore è stato testimone e ritrattista lo stesso Erwitt che, dopo svariati decenni da quello scatto, ha continuato a riconoscerlo come uno dei suoi migliori.

Di quell’amore possiamo, in via mediata, usufruire ancora noi tutti osservatori commossi di questa piccola, circolare storia familiare che parla di un gatto, di una bambina addormentata e di una giovane donna accanto in una calda giornata del 1953.



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