L’aria sfiatava dai condotti dei climatizzatori, pesante sulle spalle. Abbandonati gli uffici in surriscaldamento, i percorsi obbligati dei tubi sfociavano sulla strada e l’aria circondava i corpi in movimento rendendoli parte atmosferica di esternazioni emanate come sospiri. Automatismo e meccanicità delle esternazioni mettevano alla prova l’efficienza delle valvole in uscita. Inondate da torrenti d’acqua sulfurea che stava evaporando, sbuffavano con la stessa cadenza di segosi cetacei spiaggiati.
Il lastrico abbagliava. I pensieri raggiungevano condizioni precarie e volatili, intolleranti alle alte temperature. Cercavano riparo sotto il primo tendone di negozio, la prima pensilina d’autobus, dentro il primo androne stantio che li avrebbe salvati dalla mannaia del sole, nel ristagno liquido e rassicurante, in penombra. Durante l’estate i pensieri appena formulati, se non riposti con sollecitudine in un luogo refrigerato e poco umido, rischiano di perdere la propria assertività. Per questo motivo, per non dissipare le energie essenziali è necessario escludere, dalla rosa delle occupazioni consigliate, qualsiasi atto che sia all’origine dello sperpero di sé. In questi casi può fungere da succedaneo della lucidità rielaborativa l’assunzione di integratori salini, meglio se aromatizzati alla frutta.
I contrafforti neogotici della chiesa di San Filippo secavano in verticale campiture di azzurrite. Zampillavano di foglie ricurve in prossimità delle cuspidi e serravano il simulacro del santo dentro un’edicola verticale. San Filippo si distaccava, in estasi, dall’aria vischiosa e rendeva grazie all’Eterno per essere stato chiamato a cedere il proscenio, nonché l’edicola marmorea ormai torrida, agli spergiuri sudati e ai profeti del populismo appiccicoso.
Era troppo caldo per pensare. Adriano si guardava intorno, incrociò da sotto con lo sguardo l’ascesa estatica del santo e pensò che un po’ di sano, epidermico ritorno alla fede, rassicurato da canti e nugoli d’incenso, forse gli avrebbe procurato sollievo e qualche ingaggio.
Si rifletteva sulle vetrine e procedeva con andatura lenta. Si fermò all’edicola per sbirciare i titoli dei giornali.
Mentre, a dispetto del più zero-virgola, l’economia rantolava, era tornata alla ribalta una vecchia soubrette in disarmo, doppio strato di cerone, posticci di varia natura per sopperire alle manchevolezze del corpo. Prometteva alti tassi e tasse basse. L’aria puzzava di pollo arrosto. Il pollo, con velleità d’aquila, difendeva il buon operato del governo. Dalle vetrine un completo blaser di Valentino assicurava successo nel lavoro e autorevolezza in ufficio. Vestito di nuovo, innescato il sorriso d’ordinanza e imparate le battute, Valentino si faceva fotografare mentre stringeva la mano alle vecchiette, gli prometteva un reddito di anzianità degno del lavoro svolto durante gli anni produttivi e lontani della loro vita, il taglio dei finanziamenti agli studi di settore, la soluzione contro l’alopecia.
Era troppo caldo per pensare. Adriano si rifletteva sulle vetrine e procedeva al passo.
Quasi tutti avevano abbandonato la catastrofe dell’afa cittadina e trovato riparo. Quasi tutti tranne lui avevano abbandonato la solitudine da cataclisma, da giorno dopo, che rendeva l’aria densa. Trentaduenne, imprecava contro la decisione di fare cinema, dopo aver cominciato l’università e averla abbandonata al terzo esame, Diritto internazionale.
Quando la diaspora dei forzati del mare, degli eletti della montagna, dei viaggiatori seriali trans-europei aveva toccato il picco esponenziale, Adriano era costretto a rimanere, in città, quando in città, a quaranta gradi all’ombra, si poteva perdere la ragione e l’orientamento. Di solito la sveglia era alle cinque e mezzo per lavorare col fresco, ma quel giorno l’esterno giorno, estate, via cittadina, Marco e Ginevra si incontrano casualmente per strada, doveva essere girato alle 14. Adriano aveva trascorso la mattina a casa. S’era alzato tardi, aveva ascoltato musica e concluso che la sua vita si stesse consumando. Si consumava tra relazioni instabili, corsie preferenziali aperte per il traffico privato interrotte a metà, ingaggi nei quali non credeva.
Non era più la promessa impegnata del cinema, non era ancora un attore affermato. Un giorno in treno una signora l’aveva riconosciuto e gli aveva chiesto se per caso fosse l’aitante giovanotto alla guida della più sportiva delle sportive che in quel periodo sfrecciava in tv, tra un programma e l’altro. Non era lui. Per non deludere la signora, Adriano annuì col sorriso dei tempi d’oro, da gatto sornione e, condiscendente, lasciò un autografo.
«Ma che c’è scritto?»
«Lo decida lei signora. L’ordine degli addendi non altera il totale.»
La signora non comprese e si allontanò perplessa.
Quel giorno Adriano non aveva idea di che cosa avrebbe dovuto dire. Non ricordava le battute. Aveva trascorso la notte in un locale all’aperto e poi da un amico. Aveva bevuto. Forse c’era stata una festa. Era tornato a casa e si era riaddormentato fino a un’ora e mezza prima.
Avrebbe fatto volentieri a meno di quel film, scritto male e diretto da un regista senza ombra e attributi. Rientrava nell’alveo dei modelli accreditati presso le scuole di scrittura per il cinema che omologavano le idee e le rendevano obese di luoghi comuni. Somigliava ad altre storie. Si uniformava ad altre storie già raccontate nella speranza di richiamare pubblico. Ma così come per la narrativa circolante in quel periodo, che sembrava scritta tutta da una sola persona e parlava con la stessa voce, l’adeguamento in basso contraddiceva la presunzione secondo cui livellando, smussando, deprimendo, il lettore-spettatore non avrebbe avuto l’impressione di essere un deficiente. Avrebbe acquistato il libro e visto il film. Il teorema tuttavia faceva acqua. Gli incassi del cinema nazionale e delle vendite di libri non erano stati mai così bassi come in quel periodo.
Adriano lavorò con alterne fortune per tutto il pomeriggio. Rientrò a casa stremato e si addormentò sul divano ancora vestito, con gli abiti di scena che avrebbe dovuto restituire alla costumista puliti e stirati il giorno successivo. Ma il cerone passò dalla faccia di Adriano alla camicia bianca di lino e al tessuto ruvido del grande cuscino, anch’esso bianco, che lo aveva accolto.
In origine, prima del suo arrivo, del suo stazionamento in un luogo, quel luogo era intonso e perfetto. Prima del suo operare in uno spazio, prima di definire una condizione e uno stato, quello spazio e quella condizione erano figli della perfetta armonia, pronti ad accogliere l’eroe da beau geste. Dopo il suo arrivo potevano essere soltanto figli dell’errore Con lo stagliarsi della sua figura sul fondale diventavano un insopportabile fraintendimento, un sovvertito gioco delle parti, una storia da pochi spiccioli, una vicenda trascurabile che coinvolgeva parti e attanti accidentali. La sua carriera da attore rientrava a pieno titolo nella fattispecie.
Riavutosi, Adriano decise che avrebbe dormito per tutta la domenica. Doveva recuperare le forze dissipate durante la settimana nel corso della quale aveva dovuto sostenere tre scene d’amore, una caduta dal tetto di un capannone di lamiera, due conversazioni in inglese. Il bottino conquistato decretava credibilità appena sfiorata come amante focoso, gragnola di suoni piatti per le battute in lingua, tumefazione con indolenzimento permanente al costato dopo aver compresso la cassa toracica sulle onduline di lamiera.
Decise che avrebbe dormito. Prima cambiò il messaggio della segreteria telefonica del suo cellulare. «Se avete digitato questo numero sono certo che sarà per una ragione più che seria. In questo momento non posso o non voglio rispondervi. Se lo crederò opportuno vi richiamerò. Non prendetevela a male.»
Ingollò due sonniferi, ingurgitati in un mezzo bicchiere d’acqua minerale. Si addormentò quasi subito.
Mentre Adriano smaltiva col sonno l’ansia per l’attesa, le disillusioni per quanto era già accaduto e non gli aveva fruttato granché, lo chiamarono più volte dalla produzione.
«Adrià, non fa’ tardi stanotte, nun beve che poi te gonfi. Dovemo girà tutto da capo, metà del lavoro de sta settimana se lo semo perso.»
Ignaro, Adriano sognava l’Eden, le vallate dell’infanzia e la torta della nonna.
Commentaires