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  • Writer's pictureSalvatore Enrico Anselmi

La stringa

Updated: May 27, 2018

Una striscia di panni stesi ad asciugare al sole pareva la città, la città oltre le terrazze all’ultimo piano degli stabili in centro, in uno sboffo di afa, al di sotto delle colline.




Una striscia di panni stesi ad asciugare al sole pareva la città, la città oltre le terrazze all’ultimo piano degli stabili in centro, in uno sboffo di afa, al di sotto delle colline. Al di sotto della cintura verde delle colline la città sembrava una stringa di panni colorati stesi al sole, ad asciugare. Ondeggiavano campiture vicine e nitide, quelle delle facciate, come le Case all’Estaque. Fazzoletti incastrati in mezzo a lenzuoli, i palazzi più in là, oltre i muri d’angolo, fuori dal campo di visione incorniciato dai pilastri sulle terrazze condominiali all’ultimo piano, marcavano l’arretramento dello sguardo.

Era estate. Un’estate durante la quale da settimane caligine e umidità spiravano insieme, come da bocchettoni per l’areazione affiancati. Puzzo di fritto da un locale aperto che tentava di adescare turisti in trasferta con vetrofanie dall’apparenza edibile.

Le vie, strangolate dall’afa, erano deserte da fare paura. Oltre le strie, disciolte dell’asfalto, l’ombra a chiazze proiettata dagli alberi. Poco più in alto le persiane serrate, le stanze degli appartamenti sul piano strada disabitati. L’oscurità densa, di polvere e claustrofobia, ristagnava negli interni. Le persiane erano quasi tutte chiuse, le poche accostate facevano uscire dalle case odore di medicinali e di stanze abitate da figure sottili, sottili e canute.

Il richiamo in sordina di un motore d’automobile in allontanamento non riusciva a far superare a G. l’idea, malsana, che quella della città in agosto fosse l’iconografia dell’attesa, della sospensione e dell’attesa.

La rigenerazione si era conclusa e così il mito dell’eterno risveglio, della narrazione, circa il succedersi delle stagioni, che dopo l’inverno voleva che fosse la primavera a concedere nuovi avventi. Le erbe erano seccate nei campi, il raccolto era stato raccolto e l’acqua mancava sia per gli uomini che per gli animali. La stoppa era stata imballata in cilindri, colossali e gialli, la terra era crepata dai cretti e la città agostana era l’iconografia dell’attesa, dell’attesa che il caldo avesse termine, e della sospensione, la sospensione della vita abituale o forse semplicemente della vita.

Anche la terra del parco era tagliata da solchi che spaccavano profondità e superfici. Nel mezzo zampettavano grosse formiche in processione, le uniche a non soffrire troppo per la sete. G. se ne fece arrampicare due o tre sulle dita per solleticare la pelle e percepire una sollecitazione leggera che interrompesse il silenzio dell’epidermide.

Un cartello plastificato sull’inferriata di un giardino ammoniva i passanti a non dare da mangiare a Buck, il cane che abitava in quel giardino, perché i padroni ci pensavano già benissimo da soli. Il giardino era deserto e malandato, anche la cuccia era deserta e malandata, poche assi di legno grezzo inchiodate a forma di casetta con un arco per entrata e un “Buck” di vernice stinta a indicare la casa di Buck. Anche la ciotola ammaccata dai denti del cane stava da sola in mezzo alle aiuole di melograno, smangiata e piena di terra. Di sicuro Buck non ci abitava più da tempo in quel giardino tra i grappoli rinsecchiti delle iucche, le macchie di lavanda già da potare e grosse farfalle di plastica che dovevano essere state iridescenti. I padroni l’avevano portato con loro al mare, pensò G., o forse no.

Mimmo Rotella sembrava essersi fermato in città anche se quella città non conosceva Rotella. I cartelloni pubblicitari, incollati gli uni sugli altri, avevano prodotto strati spessi e collosi di carta ondulata e dura. Qualcuno li aveva ripetutamente strappati da sopra a sotto, in lungo e in largo. Le fenditure dei manifesti-palinsesto irrompevano sul giallo stinto dei palazzi retrostanti e lo graffiavano. Garrivano come bandiere pop contro il rumore della terra alzata dal vento e il turchese stucchevole del cielo.

Calava la controra e non c’era un’anima.

Da un distributore automatico di bibite G. fece scendere una bottiglia ghiacciata e la svuotò a grandi sorsi rischiando di soffocarsi. Tossì a lungo.

Dal centro ai quartieri periferici ci volevano pochi minuti di strada senza traffico. E dalla periferia alla campagna lo stesso. Da sotto un cavalcavia, dove dormiva la carcassa di un’utilitaria abbandonata, si risaliva verso l’altana delle sopraelevazioni per discendere verso la statale che portava al mare, dopo una trentina di chilometri.

Lungo la strada solo poche macchine di ritardatari alla festa collettiva sulla spiaggia, si recavano in direzione della ressa di carne al sole, di ombrelloni parcheggiati in tripla fila sui teli stesi.

Il cielo torrido sanciva la sua vittoria sulla terra, la terra degli uomini che attraversavano lembi di stoppa stracciati dalla strada per raggiungere le macchie di pineta in riva al mare.

G. stracciò la stoppa e giunse in riva al mare. Il vento tirava forte stendendo la bandiera rossa del divieto di balneazione. Sudore e sabbia, musica a tutto volume dagli stabilimenti balneari che annunciavano imminenti attività di animazione collettiva.

L’acqua, in delirio d’onnipotenza, rincorreva se stessa, sferzava la riva e si arrotolava in cavalloni verdi e creste di schiuma. G. abbandonò sul bagnasciuga pantaloni e camicia. Si tuffò. Con larghe bracciate riuscì in poco tempo ad allontanarsi, secondo una linea perpendicolare alla riva, quanto più poteva dalla riva. Si voltò dopo essersi rigirato in acqua. La striscia di sabbia sormontata dalla macchia dei pini ondeggiava da lontano mentre il corpo di G. tentava di rimanere a galla, innalzato dal dorso dell’onda e risospinto in basso dalla deriva, innalzato dall’acme del dorso e risucchiato dalla deriva, depresso dall’incavo verde dell’acqua ed esaltato dalla vertigine da ottovolante che non gli consentiva quasi più di esercitare alcun controllo sul suo corpo. Poteva solo tentare di galleggiare, di battere i piedi in acqua per sospingersi e stare su con la testa per non bere.

Era un duro lavoro.

Il mare non si quietava e neanche il vento. L’acqua gli entrava da un orecchio e dalla bocca, si intrometteva tra le palpebre e andava via lasciandolo con il collo e parte delle spalle scoperti, esposti al sole rovente e alla fustigazione del vento.

Andò sotto. Per qualche istante andò sotto.

Avvertì il tappo liquido serrargli le orecchie, impedirgli il respiro, sottrarlo al vociare e alla musica che urlava dalla spiaggia lontana.

Andò sotto, ma non gli dispiacque.

Non sentendo quasi più, non respirando quasi più, era un corpo in azione rallentata.

Imbarcò acqua in bocca e credette di morire solo per il bruciore del sale. Moriva, o per lo meno pensava che morire potesse essere l’unica via, l’unico epilogo consequenziale a quella condizione. Lo ripescarono da un pattino e non morì. Ansimando, tossendo percepiva che lo spasimo del petto in parossistica contrazione ed espansione, lo stesse riportando alla vita. Senza recalcitrare si fece ricondurre alla vita, sputò l’acqua, riassestò il respiro e ritornò alla vita.

A riva qualcuno gli gettò un telo di spugna sulle spalle, qualcun altro recuperò i suoi vestiti e glieli porse, qualcun altro ancora si offrì di andare a rintracciare un eventuale amico, parente, moglie a cui far sapere che tutto era finito bene. Ma G. non aveva nessuno su quella spiaggia. Era venuto da solo e non aveva nessuno a cui comunicare che il pericolo fosse scampato.

Rimase poco sulla striscia ancora rovente di sabbia che ospitava i testimoni dello scampato annegamento. Rimase poco, il tempo appena sufficiente per asciugarsi quasi del tutto, per rimettersi i vestiti, ristabilire l’equilibrio sulle gambe e allontanarsi. Mentre recuperava a fatica lo spazio che lo separava dalla pineta e dall’auto pensava che l’integrità, compiuta e fino a poco prima perfetta, del suo corpo e del suo essere proprietario di quel corpo fosse stata profanata e messa in forse da un colpo di vento e da un’onda di troppo. Rabbrividì.

Saltò dentro la macchina come se con quel gesto potesse allontanare da sé ogni pericolo e minaccia, il vento rabbioso, l’acqua impazzita, lo stordimento per l’assenza di respiro. Si riteneva sopravvissuto e pensò che ricordare negli anni a venire quella data di agosto come un secondo compleanno non fosse fuori luogo.

Si abbottonò la camicia, rigirò le maniche sugli avambracci e mentre compiva quel gesto consueto, formicolante alla testa e alle mani, ancora attraversato da un tremore in progressiva attenuazione, si acquietò.

Sulla strada del ritorno, prima che quella strada fosse invasa dalle mille macchine dei quattromila bagnanti diretti di nuovo, indistintamente tutti insieme pur senza conoscersi, verso la città e anche quella strada diventasse una spiaggia d’asfalto invasa non da sdraie e ombrelloni in fibra sintetica ma da automobili, G. si sentiva derubato. Sentiva di essere stato deprivato dello strato superficiale dell’epidermide che fino a quel giorno aveva aderito al suo corpo come una guaina di protezione. La guaina era il sentore dell’incoscienza di giovane uomo a cui nulla poteva accadere se non l’avesse voluto e permesso.

Su quella stringa di sabbia aveva lasciato qualcosa. Sentì di nuovo la pressione alla testa, urlò ancora il grido reso muto dall’essersi trovato un metro con la testa sott’acqua, le braccia e le gambe ad annaspare.

Su quella stringa di sabbia G. aveva lasciato qualcosa. Per sempre.

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