Il silenzio delle strade
inabitate e vuote come torrenti in secca
tranciato dal vento
dall’urlo del vento sulle case
e dai cani che abbaiano alle mosche.
La morte intreccia
la sua pandemica danza sul mondo
ne ride brutale, onnivora
come se la giovane pagina di foglia
rigirata dall’aria non fosse l’atavica speranza di vita
ghermita dal male prossimo
algido metallo che taglia alla gola
e spezza il respiro.
Non canto. Non canta
la voce grassa e grumosa
arrochita dal pianto sui letti di chi è andato
senza saluto, a distanza, dentro una campana
d’aria gelata e compressa che non ha sollevato
dall’ultimativo gonfiarsi del petto
saldato dal male come ingranaggio e toppa
come toppa e ingranaggio
intaccato e rugginosa.
Il verde profondo dei boschi
il bianco della neve tardiva sul picco
il rosso saturo dei papaveri
accesi nel grano coltivato,
i campi ravviati, a pettine,
sui righi dei versi che torneranno,
il rosso terroso dei tetti, il bianco di nuvole appese, il verde cespuglio,
le colline come ramarri stesi al sole, il sorriso smerigliato, il vino succoso
le foglie parlanti dai rami, la pietra albeggiante su torri, rilievi e sui muri,
il fuoco elettrico rosso schiarisce
la prospettiva, la veglia e la vedetta
dopo l’ora nera da scavalcare, dopo questo confine
dopo quarant’anni di sabbia e deserto.
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