Tornato a casa G. ispezionò e concluse che l’appartamento, dove si era appena trasferito, fosse triste.
Senza riuscire a convincersi, attribuì la responsabilità al disordine generale che tinteggiava di provvisorio soffitti, pareti e stanze. Vecchia la carta da parati, ingiallita dal fumo e dal tempo accaniti sulle fantasie optical di quarant’anni prima. Le porte erano impiallacciate e cigolanti, costruite con legno dozzinale. Le maniglie, di ottone brunito, finivano ad ali di gabbiano, di quelle che venivano avvitate ai telai molto prima che lui nascesse. La pavimentazione marezzata in breccia rossa s’incuneava nelle stanze di passaggio, come un sentiero di cotto, tra stringhe di vegetazione. Le pareti del corridoio avevano un fregio basso di fiori e piante come per segnare una bordura. Odiava il giardino plastificato dei parati, così come la breccia marezzata. Sentiva di vivere in una vecchia casa alla quale ancora non apparteneva. Cinquant’anni prima, quel trilocale poteva essere stato abitato da una coppia matura - riga sul lato sinistro della testa e occhiali spessi, lui, cotonatura convessa e gonnellone a fiori, lei. Atmosfera convenevole e dignitosa, centrini intrecciati all’uncinetto ovunque, poltrone di raso, sala da pranzo in stile svedese e legno chiaro, cucina economica, qualche ninnolo di pessimo gusto.
L’affitto però era basso, il frigorifero funzionante, la zona ben servita.
Per scacciare l’atmosfera 1960 G. aveva comprato un tavolo, qualche sedia, un divano, una libreria. Li aveva montati da sé, centellinando a bassa voce le istruzioni con dedizione quasi da orante, da orante laico in affanno abitativo. Con identico scrupolo aveva messo in fila i ripiani, i montanti, le strutture posteriori di sostegno. Aveva seguito il rito, rispettato fasi di montaggio, addossato alle pareti, aveva posizionato in mezzo, spostato a destra, strisciato il divano più avanti. Alcune viti erano avanzate, lo stesso una striscia elastica del divano, ma la libreria rimaneva in equilibrio e dimostrò, contro la titubanza iniziale, che ce l’avrebbe fatta a servire da scaffale per i libri. Anche l’affondo fu assorbito dal sedile senza contraccolpi. L’allestimento si concluse in un giorno e in una sera, quando quella gialla di mezzogiorno fu estromessa dalla luce verde della città di notte. Il torpore che segue alla cena era stato lacerato da dodici colpi di martello, trentasei avvitamenti di bulloni, otto pressioni sugli incastri e dalle proteste della famiglia accanto, comproprietaria di metà del muro comune.
Provò con il poster di una mostra sugli impressionisti comprato alla Tate, appese un quadro antico, regalo del padre, che mostrava pesche dorate su una fruttiera azzurra e bianco di Cina in bilico su un ripiano. Un moscone e una farfalla ci poggiavano le zampe, ma quella casa continuava a non appartenergli.
Tentò ancora di truccare le carte e riempì di faldoni da lavoro, penne a sfera il tavolo e la sedia anatomica appena montati. Allacciò il pc alla presa elettrica, senza svolta evidente. Srotolò un tappeto irsuto, uno spinone schiacciato a terra. Lo infilò sotto una poltrona. Rimase dieci minuti, perplesso, a guardare e si ricordò di quando, da bambino, sotto un’altra poltrona non troppo diversa da quella, s’era nascosto per una buona mezz’ora a scrocchiare caramelle frizzanti agli agrumi, a leggere giornaletti e seviziare il gatto di casa tentando di convincerlo a entrare nella tasca portariviste. Neanche l’esercizio indotto dalle corrispondenze, dalle analogie differite nel tempo, riuscì a fargli cambiare attitudine nei confronti del nuovo appartamento.
Incuneata per anni negli strappi della carta da parati, la polvere era diventata solida, compatta in strati percettibili al tatto sotto il finto tessuto incollato al muro. Un puzzo indefinito premeva da dietro ogni porta chiusa e sfiatava, senza possibile sottrazione olfattiva, quando le porte venivano aperte e l’aria cominciava a circolare. G. apriva le finestre, a lungo. L’aria esterna indubbiamente entrava. G. chiudeva le finestre e l’aria appena acclimatata assorbiva, per condividerlo, il tanfo stanziale della casa. Il sentore di asfissia aveva la meglio sui refoli freschi. La casa continuava a puzzare.
Per prendere davvero possesso di quegli ambienti G. ritenne di dover abbandonare i vestiti in giro e lasciare scrupolosamente sfatto il letto. Anche così la nuova tana non era ancora la sua, come il quartiere diseredato intorno e lo stesso palazzo dove dall’ultimo piano l’appartamento dominava le stratificazioni urbane vicine, l’algore della luce bianca al mattino e color bronzo, al tramonto.
Anonimo, il palazzo in travertino dove G. si era trasferito da poco, era infilato in mezzo a una via secondaria, ricurva e in discesa. La stringa dell’asfalto fresco tracciava una linea convessa dopo la piazza a mezzaluna, ingombra da un ufficio postale e da uno spazio verde con prato in alopecia. Lo sterrato, ora buche e rialzi, un tempo doveva essere stato l’unico giardino tra i palazzi. Lungo il lato curvo una raggiera di strade infilzate sul margine opposto al giardino in crisi d’identità. In generale gli edifici in quella zona erano in crisi identitaria, costruiti come esempio di edilizia civile, tra la fine del secondo dopoguerra e il boom palazzinaro, per assicurare alla borghesia impiegatizia abitazioni confortevoli. Ma in economia doveva essere stato costruito tutto l’isolato, anche i villini a tre piani circondati da fazzoletti verdi e cortili, che tentavano di imitare il quartiere Coppedè. Non ne avevano l’estro visionario, tuttavia, né tantomeno la varietà dei materiali da costruzione. L’intonaco marmorizzato, ingannatore solo a svariati metri di distanza, era stato steso male e, scrostatosi almeno una decina di volte, era stato reintegrato peggio. Gli alberi, stizziti per il freddo, lanciavano contro il cielo di zinco rami senza foglie, come frecce in sfida con l’aria. Di notte i lampioni ricurvi gettavano sulla strada chiazze malevole, si piegavano con l’occhio perenne di luce accesa verso il basso come se fossero stati uomini in cerca di oggetti smarriti, rotolati sotto il pianale delle macchine. G. scrutava dall’alto, seguiva la traiettoria dei passanti. Alcuni con le mani in tasca, sputavano a terra, si giravano in direzione dell’auto che aveva dichiarato l’intento di lucidarli da dietro, imprecavano contro l’automobilista incauto e, magnanimi, gli riconoscevano la presenza di escrescenze ossee sulla calotta cranica.
Era quello un agglomerato dove i bambini non potevano vedere facce, assistere a fatti, incrociare individui che avrebbero stracciato il ricordo luminescente della loro infanzia. Il repertorio di interazioni col mondo reale non li avrebbe sradicati dalla perfezione, illusoria, del modello adulto che, quando si è piccoli, appare come la migliore forma di vita sociale possibile. Allo stesso tempo non avrebbero visto niente che sarebbe rimasto impresso nella memoria se non strade poco rumorose, famiglie in ritirata affranta a casa, la sera, o in spasmodica fuoriuscita al mattino successivo verso scuola e lavoro. Inciampi, cadute e salvataggi da parte di braccia paterne, penuria di spazi dove posteggiare, negozietti stratificati nel tempo. La sovrapposizione aveva enumerato quelli delle signorine in là con gli anni, non sposate e con madre a carico, che vendevano libri, quaderni lucidi e carta da lettere profumata, sostituiti dalle copisterie express, dalle librerie, su cui alitavano poche lampadine inefficienti, quelle che non avevano quasi mai niente ma da cui si poteva ordinare tutto. Due minuscole gallerie d’arte sfrattate da negozi di t-shirt e noleggio biciclette, laboratori artigianali soppiantati da lavanderie automatiche, centri send-money e internet point.
G. sentiva, come da lontano, il rumore dei suoi passi lungo i marciapiedi, chiazzati dall’erba delle fessurazioni. Estranei il cigolio del portone, lo strattone dell’ascensore giunto al piano, la vibrazione sgangherata del cancelletto in gabbia metallica da far ruotare in fretta per entrare nel vano mobile. Piano ottavo, lamento, strattone, cigolio, rotazione del cancelletto, uscita in direzione della porta di casa, entrata in casa.
Soprattutto qui non si poteva considerare al sicuro, al riparo dalle intemperie umorali dei suoi simili, dal rumore, dalla consapevolezza che l’inettitudine genera inerzia e crudeltà. Quando non sprona ad emendare se stessi, e il più delle volte è così, produce soltanto crudeltà e inerzia.
Crisalidi secche in dondolio, esposte allo sfregio dell’aria di febbraio, erano i suoi simili e lui stesso, uomo che non aveva tentato di percorrere il terreno dei gradi evolutivi ed era rimasto ad annaspare nell’acqua bassa, era come una crisalide che non aveva subito alcuna metamorfosi. L’acqua dove si tocca finisce e le alternative sono trovare un padrone e perire, o posporre la paura della fatica alla vertigine del tuffo, alla frenesia delle bracciate una dietro l’altra, alla sordità per le voci che da riva richiamano a tornare, alla cecità per le mani materne e le braccia familiari che arrancano nell’aria di agosto per far ritornare il nuotatore.
Dopo un mese dal trasloco G. non era ancora a suo agio in quella casa, non una frazione della giornata durante la quale fosse stato sereno e quieto. Ronzio nelle orecchie, la presenza esercitata inspiegabilmente dagli assenti, gli assenti, che avevano eclissato la loro sagoma ormai da tempo, e gli assenti che in quella casa dovevano aver vissuto.
Per cercare una candela in una serata di black-out, sfilò i cassetti da una credenza di radica, lasciata lì, dai padroni di casa, appoggiata a una parete del corridoio. Al ritorno della luce, con i polpastrelli scottati dalla cera liquida, un cassetto caduto a terra e la maniglia staccata, saltarono fuori, da sotto la carta a gigli di Firenze che foderava l’interno, alcuni fogli ripiegati. Era una lettera. Erano le carte scritte da una mano femminile, la dichiarazione di un addio.
Le stanze di quella casa erano state il luogo della disaffezione e del rifiuto, il rifiuto di una relazione stabile, la disaffezione per quel rifiuto. Erano state il luogo di una sofferenza cementata, dell’allontanamento seguito alla disfatta subita da entrambi i protagonisti che G. non conosceva ma che poteva immaginare ferirsi a vicenda in quell’interno borghese, poco illuminato, che guardava la città dall’ottavo piano.
Vent’anni prima, quando la casa rigurgitava divani bianchi, bassi tavoli in ottone, lampade di ceramica sormontate da conici cappelli cerati, quella casa aveva visto contrapposti un uomo e una donna, non più assidui frequentatori l’uno dell’altra. Un figlio non era stato sufficiente a mantenere l’equilibrio di quattro assi inchiodati come si poteva. L’unità non aveva sopportato le trazioni centrifughe.
La gloria delle promesse s’era appannata sotto la sferza della pioggia, della prima volta in cui tacere dovette apparire preferibile alle parole.
G. abbandonò quella casa il giorno dopo.
Comments