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Writer's pictureSalvatore Enrico Anselmi

Nelle nostre vite precedenti




“Nelle nostre vite precedenti siamo stati tutti terra, pietra, rugiada, vento, acqua, fuoco, muschio, albero, insetto, pesce, tartaruga uccello e mammifero”.

È quanto afferma il monaco Thich Nhat Hanh, citando Buddha.

Non so se davvero io abbia mai avuto una o più vite precedenti.

Non ne ho memoria, alcuna memoria lucida, forse solo un sentore indecifrato e forse solo talvolta questo sentore riaffiora. Se dalle vite precedenti dovessi aver tratto esperienza e maggior consapevolezza, una saggezza che deriva dall’aver condiviso il regno inanimato e animale con una pietra, un vegetale, o un essere mobile e in bilico sulla sua stessa vita, non ne ho conservato una traccia evidente. Forse nessuna di queste condizioni mi ha segnato perché potesse lasciare in me un documento consultabile, un testo scritto, una contezza acquisita come tale. Ma non ne sono certo.

Non sono il libro di me stesso, non sono il testo della legge, non raccolgo racconti esperienziali al punto da poter dare loro una forma intellegibile, né fisica, né visiva, né scritta. Dovrò forse apprendere a decodificare il senso del tutto dall’ombra che il mio corpo traccerà, dall’intento conciliatore o di difesa del mio gesto, delle mie azioni, dalla configurazione assunta dal mio pensiero nelle parole più opportune ed eloquenti per riuscire davvero a comunicare senza lasciare increspature al dubbio, appigli alla diversione, pretesti e sotterfugi.

Forse alla fine del mio percorso avrò maturato saggezza, spessa e densa, alla quale poter attingere estirpando uno strato superficiale o più scisti sovrapposti senza estinguere la stratificazione.

So tuttavia che qualcos’altro devo essere stato prima di nascere uomo, prima di rizzarmi su due gambe e scrutare il cielo portandomi la mano alla fronte, prima di credere in un nuovo giorno che mi convinca ad abbandonare il sonno e a muovermi in questo luogo. A muovermi per tentare, in forma strenua, di lasciare una qualche, anche minima traccia della mia presenza. Altrimenti mi sarò estinto, prima di rimettere il fiato, sarò stato imbavagliato dalla bava di silenzio prima che l’esaurimento della vita abbia inghiottito e trangugiato il colpo di vita sfidante e l’autentico abbrivio.

La scommessa, la puntata rischiosa, la giusta linea per ombreggiare il volume ipotecato sul foglio a sanguigna comporranno gli anni.

Trattengo una traccia che decodifico a stento.

Costituisce forse la ragione della mia attuale natura terrigna, quando guardo i campi distesi come un vello ordinato secondo la geometria dei filari, quando coniugo il preesistente stelo delle piante spontanee abbarbicato, per naturale istinto, al tronco dell’albero che io ho piantato.

Ho parlato alle forme alte che fanno da paratia in difesa contro il vento, e a quelle più modeste e meno svettanti che chiudono le aree intermedie e costituiscono di fatto la sostanza, quasi schiumosa, di un giardino. Il giardino, mansueto e coltivato, parla a sua volta e restituisce alle mie domande rare risposte, solfeggiate dall’aria che le attraversa, vibrate dalle foglie e dai rami che non oppongono se non una mite barriera al vento passante. Il vento attraversa foglie e rami, e quei rami, e quelle foglie restituiscono un verso che è loro proprio, a seconda dello spessore e dell’ampiezza, dell’umore e del tempo.

Se così mi comporto allora devo essere stato anch’io vento, o parte costitutiva di esso. Un refolo, un molinello, un alito, una corsa in salita lungo la costa ripida della roccia che affianca questo colle e i suoi silenzi. Mi confronto con sovrumane sordine, così eloquenti da azzerare il nullo loquere del mondo. Credo forse di essere ancora vento quando, per illusione o per gioco, vedo che la mente si rischiara grazie a uno spiraglio d’aria che l’affianca per poco e la supera.

O forse è il gesto benefico degli avi, dei presenti un tempo, ora trascorsi, cha tanto hanno preso parte alla mia vita, alla mia speranza, alla mia attesa, alla mia gioia, e ora, per bieco ritmo di questa stessa vita, non sono più.

Stendo la mano sulla roccia, col palmo rivolto verso la pelle granulosa della pietra, che si riscalda presto e altrettanto presto si raffredda, che cambia colore a seconda dell’alba o della giornata nel mezzo e si scurisce quando la sera spinge oltre le nuvole e il chiarore.

I muschi si accingono ad estendersi verso nord, richiamati dall’algore e dal gelo che sulla parte meno estesa al sole si dipanano e sembrano dormire aderenti al letto di sasso. Rimpolpano il panno della veste sul tronco, come se dal tronco potessero cavare la forza spessa di corazza e, come lorica sbalzata, splendere di aggetti, involvere negli incavi e nello scavo.

L’acqua scende dalla sorgente come sistema venoso e s’incunea popolato di pesci che saltano, per solo volere di timone dorsale e impulso di un nervo che li ha spinti, lontani nel tempo, a fuoriuscire, a mutare le branchie in polmoni, le squame in pelle, le pinne in zampe, in arti e in mani prensili.

Da quella evoluzione deriviamo e ne abbiamo trattenuta memoria.

Ai sentieri ho detto di attendermi e li ho rassicurati.

Alle macchie prostrate ho raccontato le storie dei ritorni e dei viaggi ripresi per ingannare la noia.

All’umore piovoso, raccolto nell’incavo degli alberi, ho lasciato un canto che parla della bellezza assorta di queste terre, dell’irsuta criniera degli abeti, della malinconia bruna stemperata nella nebbia e della sgargiante varietà delle foglie accese nel verde in primavera e nel giallo in autunno.

Allo strapiombo ho lanciato la voce che lo strapiombo ha moltiplicato affinché l’orrido non patisse solitudine e, con l’eco di una voce, potesse parlare, e con il rimbalzo sulla parete potesse giocare senza strumenti di lancio o di presa.

Alla punta del picco ho guardato, assorto come in una preghiera, arpionato nel petto verso la salita. E forse la vertigine dell’uccello guerriero ho provato nel tentare di appuntare lo sguardo affinché diventasse più acuto l’intento di costruire lì il nido.

Affinché diventassi più acuto, non smussato o dormiente. Apre una tenue ferita della quale mi compiaccio il breve intervallo di silenzio tra «Lascia la spina» - «Cogli la rosa»


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